Attenzione! Qui, si dovrebbero applicare determinate normative di sicurezza.
Attenzione! Qui, questi materiali non dovrebbero essere impiegati perché nocivi alla salute.
Attenzione! Qui, i lavoratori non sono sufficientemente qualificati e tecnicamente preparati per svolgere tali mansioni.
Avvertimenti sottovalutati, aggirati, che nel tempo si sono resi tanto vani, da far passare per giusto, quello che giusto proprio non si può considerare come tale. Perché, morire sul posto di lavoro, non è più giustificabile. Morire perché si è preferito accettare condizioni disagevoli pur di lavorare. Morire per colpa di chi poteva fare delle scelte diverse, magari proprio quelle giuste, non permettendo più che tante vite umane, uscite di casa la mattina, non facessero più ritorno. Questi morti devono pesare sulle coscienze collettive, soprattutto quando, da individui con una propria identità, si sono trasformati in unità statistiche. Non più persone ma numeri. Numeri seriali di matrici, che ogni anno, entrano a far parte di trend statistici con il nome di morti bianche. E questo, è stato evidenziato dai dati elaborati dall’Osservatorio Sicurezza sul Lavoro Vega Engineering di Mestre, che con l’ausilio anche di fonti Inail, continuano a registrare un aumento delle morti bianche. Ad agosto 2015 la percentuale di decessi sul lavoro si è attestata sull’11,7%. Dei quali, 546 rilevati nei soli primi otto mesi dell’anno. E in un solo mese (luglio 2015-agosto 2015), si è passati dal 9,5% all’11,7%. Dati del tutto poco edificanti che non lasciano in alcun modo capire cosa realmente spinge, la classe dirigente, a disinteressarsi della sicurezza sul lavoro, rendendosi colpevoli del più grave dei reati: l’omissione. Un’omissione imputabile proprio ai datori di lavoro che, troppo spesso, chiudono gli occhi e aggirano le leggi, quando è invece richiesta loro una preventiva conoscenza di tutte le disposizioni normative. Non solo quindi poteri direttivi e incolumità. Oggi, più che in passato, è richiesto un forte senso di responsabilità, di valutazione di tutti i rischi, per garantire quella sicurezza e quel benessere psico-fisico dovuto ai propri lavoratori. E’ quindi compito primario dei vertici dotarsi di una rete organizzativa e di gestione, in grado di assolvere tutti i compiti previsti dalla legge in materia di sicurezza, la cui elusione è penalmente perseguibile. Una legge, o come sosteneva il sociologo Durkheim, una regola, deve potersi elevare sopra di tutto e di tutti, ed essere presa come maniera di agire obbligatoria, svincolata dal libero arbitrio del singolo individuo. La regola deve applicarsi, così com’è, lì dove è richiesta. Ed è proprio su questo punto, che ci si dovrebbe maggiormente soffermare a mio avviso, ponendo la giusta attenzione sul percorso che porta dalla conoscenza delle normative alla loro indiscussa applicazione. Anche se è dovere di ogni cittadino conoscere le leggi vigenti in ogni settore, sarebbe giusto, vista la dilagante situazione omissiva in cui viviamo, che strutture ed enti predisposti si adoperino al fine di far conoscere agli interessati le normative loro riguardanti. Prendiamo, come caso esplicativo, il D.Lgs 9/04/2008 n.81 e il D.Lgs 4/12/1992 n. 475, sui dispositivi di protezione individuali (D.P.I.). In questi due decreti si fa riferimento a tutta l’attrezzatura destinata a essere indossata e tenuta dal lavoratore allo scopo di proteggerlo da tutti quei rischi che ne minacciano la sicurezza o la salute durante la giornata lavorativa. Ma pur esistendo in merito un’ampia normativa, Andrea Di Maso (scrittore, opinionista, imprenditore), in una sua analisi sul fenomeno, dichiara che motivi di carattere psicologico e sociologico impediscono l’applicazione dei D.P.I., ritenuti superflui e di intralcio. Semplici guanti di protezione non si utilizzano perché per molti ridurrebbero la sensibilità tattile e la capacità manuale (aspetti psicologici). Mentre il goliardico senso di appartenenza al gruppo, ritiene più abili e capaci, coloro i quali non abbiano in alcun modo bisogno di eccessivi dispositivi di protezione, perché in grado di svolgere i loro compiti senza margini di errore (aspetti sociologici). E’ bene quindi, per non cadere in queste erronee considerazioni valutative, sensibilizzare, il più possibile, tutto l’organico lavorativo, investendo tempo e risorse su quella che sempre più ciclicamente dovrebbe entrare a far parte di una corretta crescita aziendale: la formazione. Da statistiche nazionali, si evince che, il 10% degli infortuni avviene per cause tecniche e strutturali, mentre il 90% è causato dal comportamento inappropriato dei singoli individui. Ed è per questa ragione che è diventata di fondamentale importanza la formazione preventiva, da applicarsi prima che al lavoratore si assegni un certo lavoro o prima che abbia luogo un suo cambiamento di mansione. Sarà quindi obbligo da parte del datore di lavoro, come prevedono gli articoli 36 e 37, assicurare che ciascun lavoratore riceva una formazione sufficiente in materia di sicurezza e salute, nonché una altrettanto adeguata formazione sui rischi e pericoli esistenti all’interno dei luoghi di lavoro stessi. In questo modo il singolo lavoratore diventerà un soggetto beneficiario attivo, consapevole per legge di tutti i suoi diritti.
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Dott.ssa Tania Nardi