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La valutazione del rumore nei call center

Maggio 13, 2015 By: PolissFormazione Category: Senza categoria

Così come evidenziato già nel 2005, nella giornata internazionale promossa dall’Agenzia europea per la sicurezza e la salute sul lavoro (International Noise Awareness Day), esistono attività lavorative dove il rischio rumore è spesso trascurato o erroneamente associato esclusivamente ad ambienti tradizionalmente “rumorosi”, quali quello edile, metallurgico e comunque nel contesto prettamente industriale. Negli anni, invece, diversi studi hanno dimostrato che esistono altre attività lavorative esposte al rischio rumore come ad esempio il settore della musica o dei Call center. In Italia, nel 2012, è stato stimato un numero di circa 200.000 lavoratori addetti ai call center che risultano essere esposti a rischio rumore. Questa particolare categoria  è soggetta a tale pericolo sia da un punto di vista ambientale che strumentale a causa dei dispositivi da loro utilizzati.

Introduzione

Gli effetti del rumore sull’orecchio umano sono essenzialmente di fastidio, disturbo e danno uditivo, ma si può arrivare anche al cosiddetto trauma acustico. Questa situazione ha attirato l’attenzione sia del Legislatore che della comunità scientifica tanto da ritenere opportuno emanare normative tecniche e linee guida per tutelare l’apparato uditivo dei lavoratori. In particolare le attenzioni si sono concentrate principalmente in tutti quei casi dove le sorgenti sonore sono situate in prossimità dell’orecchio, quali per esempio cuffie e auricolari, le quali possono generare alti livelli di pressione acustica. Questi livelli di pressione sonora in cuffia possono essere accompagnati da segnali irregolari come impulsi (esempio di una chiamata verso un fax) definiti in letteratura come “choc acustici” che, alla lunga, possono danneggiare in modo anche permanente l’apparato uditivo.

Le attuali norme di riferimento relative alla determinazione e valutazione del rischio acustico, a cui sono esposti tutte quelle categorie di lavoratori che operano e lavorano con sorgenti di rumore poste in prossimità dell’orecchio, descrivono un insieme di metodi per la misurazione dei livelli di pressione sonora. Particolare attenzione va data alla valutazione ed al confronto tra le tecnologie di misura attualmente disponibili sul mercato, di quest’ultime infatti è necessario prendere in considerazione le criticità e i principali problemi che ne influenzano l’accuratezza mettendo così in evidenza i limiti di applicazione delle varie apparecchiature nella realtà effettiva dei call center in modo da agevolare e aiutare chi deve affrontare una valutazione del rischio appropriata per i soggetti in questione.

Analisi Normativa

Il D. Lgs 81/08 stabilisce, nel Titolo VIII, le disposizioni e le modalità di misura per la valutazione dell’esposizione dei lavoratori al rumore. Nello specifico, l’articolo 181 stabilisce l’obbligo per il datore di lavoro di valutare il rischio di esposizione ad agenti fisici tra cui il rumore. Per alcune attività particolari, quali il lavoro nei call center, le modalità di misura tradizionali non sono applicabili e il legislatore aveva previsto, nell’art. 198 del D. Lgs. 81/08, la pubblicazione di linee guida specifiche per orientare gli operatori del settore. Ad oggi la Commissione Consultiva Permanente sta operando al fine di redigere il suddetto documento (tale linea guida) così come è stato fatto in passato per il settore della musica. L’esigenza di emanare normative tecniche e linee guida che comprendessero tutti quei casi espressi nell’art. 198 è scaturita dal crescente numero di lavoratori che operano con sorgenti sonore situate in prossimità dell’orecchio. La normale prassi di misura utilizzata attualmente prevedeva, infatti, che la postazione microfonica di misura fosse collocata al centro della postazione occupata dal lavoratore all’altezza della testa; in alternativa, prevedeva che il microfono fosse posto a circa 10 cm dall’orecchio più esposto del lavoratore. Come facilmente intuibile, tale procedura non è chiaramente adeguata nel caso degli operatori dei call center che, per prassi, utilizzano dispositivi auricolari attivi attraverso i quali il rumore è immesso direttamente nel condotto uditivo. Ne deriva che la metodica di misura adottata nei classici ambienti di lavoro, così come previsto dalla norma tecnica UNI EN ISO 9612:2011 (Determinazione del livello di esposizione al rumore negli ambienti di lavoro) e dalla norma UNI 9432:2011 (Determinazione del livello di esposizione personale al rumore nell’ ambiente di lavoro), portasse esclusivamente alla misura del livello di pressione acustica ambientale senza analizzare quello che arriva effettivamente al timpano del lavoratore. Per questo motivo, in aggiunta alle misure sopra citate se ne aggiungono altre necessarie per valutare e misurare il rumore potenzialmente pericoloso. Tale serie di norme tecniche, quali la UNI EN ISO 11904-1:2006 (Determinazione dell’esposizione sonora dovuta a sorgenti sonore situate in prossimità dell’orecchio. Parte 1: tecnica MIRE), la UNI EN ISO 11904-2:2005 (Determinazione dell’esposizione sonora dovuta a sorgenti sonore situate in prossimità dell’orecchio. Parte 2: tecnica del manichino) e la ETSI EG 202 518 V1.1.1, (metodo elettro-acustico), ed infine il rapporto tecnico UNI/TR 11450:2012 (Valutazione dell’esposizione a rumore nei luoghi di lavoro per lavoratori che utilizzano sorgenti sonore situate in prossimità dell’orecchio), descrivono un insieme di metodi per la misurazione dei livelli di pressione sonora e delle relative incertezze in questo settore lavorativo molto particolare. A livello nazionale esistono delle linee guida, suggerite dal Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali e approvate nella Conferenza Stato Regioni del luglio 2012, che vengono in aiuto ai tecnici del settore. Tale documento sono state pubblicate relativamente al solo settore della musica mentre, per quanto riguarda il rumore in cuffia, la presente indagine viene condotta sempre ai sensi del titolo VIII capo II (Protezione dei lavoratori contro i rischi di esposizione al rumore durante il lavoro) adottando le metodiche messe a disposizione dalla normativa tecnica di settore, recentemente aggiornata. Il citato Rapporto Tecnico (UNI/TR 11450:2012) rimanda alla UNI EN ISO 9612:2011 e alla UNI 9432:2011 per quanto riguarda il calcolo del livello di esposizione giornaliera o settimanale al rumore, il livello di picco, la quantificazione delle relative incertezze e il confronto con i valori di legge.

Quindi per effettuare la misurazione si adotta il rapporto tecnico UNI TR 11450:2012 ma per il confronto con il Testo Unico si adottano le norme tecniche UNI EN ISO 9612:2011 e la UNI 9432:2011.

Gravi violazioni ai fini dell’adozione del provvedimento di sospensione dell’attività imprenditoriale

Maggio 13, 2015 By: PolissFormazione Category: Senza categoria

Violazioni che espongono a rischi di carattere generale

  •  Mancata elaborazione del documento di valutazione dei rischi;
  • Mancata elaborazione del Piano di Emergenza ed Evacuazione;
  • Mancata formazione ed addestramento;
  • Mancata costituzione del servizio di prevenzione e protezione e nomina del relativo responsabile;
  • Mancata elaborazione piano operativo di sicurezza (POS).

 

Violazioni che espongono al rischio di caduta dall’alto

  • Mancata fornitura del dispositivo di protezione individuale contro le cadute dall’alto;
  • Mancanza di protezioni verso il vuoto.

 

Violazioni che espongono al rischio di seppellimento

  • Mancata applicazione delle armature di sostegno, fatte salve le prescrizioni desumibili dalla relazione tecnica di consistenza del terreno.

 

Violazioni che espongono al rischio di elettrocuzione

  • Lavori in prossimità di linee elettriche in assenza di disposizioni organizzative e procedurali idonee a proteggere i lavoratori dai conseguenti rischi;
  • Presenza di conduttori nudi in tensione in assenza di disposizioni organizzative e procedurali idonee a proteggere i lavoratori dai conseguenti rischi;
  • Mancanza protezione contro i contatti diretti ed indiretti (impianto di terra, interruttore magnetotermico, interruttore differenziale).

 

Violazioni che espongono al rischio d’amianto

  •  Mancata notifica all’organo di vigilanza prima dell’inizio dei lavori che possono comportare il rischio di esposizione ad amianto.

Infortunio sul lavoro

Maggio 13, 2015 By: PolissFormazione Category: Senza categoria

3d abstract running doctorsÈ infortunio sul lavoro se… L’assicurazione obbligatoria Inail copre ogni incidente avvenuto per “causa violenta in occasione di lavoro” dal quale derivi la morte, l’inabilità permanente o l’inabilità assoluta temporanea per più di tre giorni. Si differenzia dalla malattia professionale poiché l’evento scatenante è improvviso e violento, mentre nel primo caso le cause sono lente e diluite nel tempo.

La causa violenta. È un fattore che opera dall’esterno nell’ambiente di lavoro, con azione intensa e concentrata nel tempo, e presenta le seguenti caratteristiche: efficienza, rapidità ed esteriorità. Può essere provocata da sostanze tossiche, sforzi muscolari, microrganismi, virus o parassiti e da condizioni climatiche e microclimatiche. In sintesi, una causa violenta è ogni aggressione che dall’esterno danneggia l’integrità psico-fisica del lavoratore.

L’occasione di lavoro. Si tratta di un concetto diverso rispetto alle comuni categorie spazio temporali riassumibili nelle espressioni “sul posto di lavoro” o “durante l’orario di lavoro”. Si tratta di tutte le situazioni, comprese quelle ambientali, nelle quali si svolge l’attività lavorativa e nelle quali è imminente il rischio per il lavoratore. A provocare l’eventuale danno possono essere:

  • elementi dell’apparato produttivo
  • situazioni e fattori propri del lavoratore
  • situazioni ricollegabili all’attività lavorativa

Non è sufficiente, quindi, che l’evento avvenga durante il lavoro ma che si verifichi per il lavoro, così come appurato dal cosiddetto esame eziologico, ossia l’esame delle cause dell’infortunio. Deve esistere, in sostanza, un rapporto, anche indiretto di causa-effetto tra l’attività lavorativa svolta dall’infortunato e l’incidente che causa l’infortunio.

Sono esclusi dalla tutela gli infortuni conseguenti ad un comportamento estraneo al lavoro, quelli simulati dal lavoratore o le cui conseguenze siano dolosamente aggravate dal lavoratore stesso.
Sono invece tutelabili gli infortuni accaduti per colpa del lavoratore, in quanto gli aspetti soggettivi della sua condotta (imperizia, negligenza o imprudenza) nessuna rilevanza possono assumere per l’indennizzabilità dell’evento lesivo, sempreché si tratti di aspetti di una condotta comunque riconducibile nell’ambito delle finalità lavorative.

L’infortunio in itinere.
 L’Inail tutela i lavoratori anche nel caso di infortuni avvenuti durante il normale tragitto di andata e ritorno tra l’abitazione e il luogo di lavoro. Il cosiddetto infortunio in itinere può verificarsi, inoltre, anche durante il normale percorso che il lavoratore deve fare per recarsi da un luogo di lavoro a un altro, nel caso di rapporti di lavoro plurimi, oppure durante il tragitto abituale per la consumazione dei pasti, se non esiste una mensa aziendale. Qualsiasi modalità di spostamento è ricompresa nella tutela (mezzi pubblici, a piedi, ecc.) a patto che siano verificate le finalità lavorative, la normalità del tragitto e la compatibilità degli orari. Al contrario, il tragitto effettuato con l’utilizzo di un mezzo privato, compresa la bicicletta in particolari condizioni, è coperto dall’assicurazione solo se tale uso è necessitato.

Chiarimenti sull’obbligo di informazione, formazione e addestramento

Maggio 13, 2015 By: PolissFormazione Category: Senza categoria

La Cassazione ha affermato che “l’applicazione delle misure di prevenzione degli infortuni sul lavoro sottendono … allo scopo di evitare che l’errore umano, possibile e, quindi, prevedibile, influente su di una condotta lavorativa diversa da quella corretta, ma pur sempre posta in essere nel contesto lavorativo, possa determinare il verificarsi di un infortunio. Se tutti i dipendenti fossero sempre diligenti, esperti e periti non sarebbe necessario dotare i luoghi di lavoro e le macchine di sistemi di protezione” (  Corte di Cassazione – Sezione IV Penale – 7 giugno 2010 n. 21511). E se tutti fossero sempre diligenti, esperti e periti non sarebbe neanche necessario   informare, formare, addestrare, con aggiornamenti periodici, i lavoratori, ma anche i preposti e i dirigenti.

Ma così non è:  non tutti sono diligenti-esperti-periti e anche chi lo è ha la tendenza a sottovalutare l’importanza dell’attenzione ininterrotta alla sicurezza e all’igiene del lavoro. Diventa dunque obbligatorio, nonché fondamentale, garantire a tutti i lavoratori, ma anche ai dirigenti e ai preposti, una formazione adeguata e idonea.
 
In tal senso l’articolo 37 D.Lgs. del n. 81/2008 (Formazione dei lavoratori e dei loro rappresentanti) rappresenta gli obblighi fondamentali in materia, sanzionando come reati contravvenzionali (penali) i commi che definiscono i capisaldi dell’obbligo formativo:
 
1. Il   datore di lavoro assicura che ciascun lavoratore riceva una formazione sufficiente ed adeguata in materia di salute e sicurezza, anche rispetto alle conoscenze linguistiche, con particolare riferimento a:
a) concetti di rischio, danno, prevenzione, protezione, organizzazione della prevenzione aziendale, diritti e doveri dei vari soggetti aziendali, organi di vigilanza, controllo, assistenza;
b) rischi riferiti alle mansioni e ai possibili danni e alle conseguenti misure e procedure di prevenzione e protezione caratteristici del settore o comparto di appartenenza dell’azienda.(Sanzione per la violazione: arresto da due a quattro mesi o con l’ammenda da 1.200 a 5.200  euro il datore di lavoro – dirigente)
 
2. La durata, i contenuti minimi e le modalità della formazione di cui al comma 1 sono definiti mediante accordo in sede di Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano adottato, previa consultazione delle parti sociali, entro il termine di dodici mesi dalla data di entrata in vigore del presente decreto legislativo
 
3. Il datore di lavoro assicura, altresì, che ciascun lavoratore riceva una formazione sufficiente ed adeguata in merito ai rischi specifici di cui ai titoli del presente decreto successivi al I. Ferme restando le disposizioni già in vigore in materia, la formazione di cui al periodo che precede è definita mediante l’accordo di cui al comma 2.
 
4. La formazione e, ove previsto, l’addestramento specifico devono avvenire in occasione:
a) della costituzione del rapporto di lavoro o dell’inizio dell’utilizzazione qualora si tratti di somministrazione di lavoro;
b) del trasferimento o cambiamento di mansioni;
c) della introduzione di nuove attrezzature di lavoro o di nuove tecnologie, di nuove sostanze e preparati pericolosi.
 
5. L’addestramento viene effettuato da persona esperta e sul luogo di lavoro.
 
6. La formazione dei lavoratori e dei loro rappresentanti deve essere periodicamente ripetuta in relazione all’evoluzione dei rischi o all’insorgenza di nuovi rischi.
 
7. I dirigenti e i preposti ricevono a cura del datore di lavoro, un’adeguata e specifica formazione e un aggiornamento periodico in relazione ai propri compiti in materia di salute e sicurezza del lavoro. I contenuti della formazione di cui al presente comma comprendono:
a) principali soggetti coinvolti e i relativi obblighi;
b) definizione e individuazione dei fattori di rischio;
c) valutazione dei rischi;
d) individuazione delle misure tecniche, organizzative e procedurali di prevenzione e protezione.
(Sanzione per la violazione: arresto da due a quattro mesi o con l’ammenda da 1.200 a 5.200  euro il datore di lavoro/dirigente)
 
7-bis. La formazione di cui al comma 7 può essere effettuata anche presso gli organismi paritetici di cui all’articolo 51 o le scuole edili, ove esistenti, o presso le associazioni sindacali dei datori di lavoro o dei lavoratori.
 
8. I soggetti di cui all’articolo 21, comma 1, possono avvalersi dei percorsi formativi appositamente definiti, tramite l’accordo di cui al comma 2, in sede di Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano.
 
9. I lavoratori incaricati dell’attività di prevenzione incendi e lotta antincendio, di evacuazione dei luoghi di lavoro in caso di pericolo grave ed immediato, di salvataggio, di primo soccorso e, comunque, di gestione dell’emergenza devono ricevere un’adeguata e specifica formazione e un aggiornamento periodico; in attesa dell’emanazione delle disposizioni di cui al comma 3 dell’articolo 46, continuano a trovare applicazione le disposizioni di cui al decreto del Ministro dell’interno in data 10 marzo 1998, pubblicato nel S.O. alla G.U. n. 81 del 7 aprile 1998, attuativo dell’articolo 13 del decreto legislativo 19 settembre 1994, n. 626. (Sanzione per la violazione: arresto da due a quattro mesi o con l’ammenda da 1.200 a 5.200  euro per  il datore di lavoro/dirigente)
 
[…] 12. La formazione dei lavoratori e quella dei loro rappresentanti deve avvenire, in collaborazione con gli organismi paritetici, ove presenti nel settore e nel territorio in cui si svolge l’attività del datore di lavoro, durante l’orario di lavoro e non può comportare oneri economicia carico dei lavoratori.
 
Si noti che il 12° comma ovviamente non è sanzionato penalmente, trattandosi di materia che riguarda obblighi di natura patrimoniale-contrattuale, dunque civilistica. Ma non è certo ininfluente il caso in cui, ad esempio, un datore di lavoro decida inopinatamente di effettuare la formazione del lavoratore, o preposto, o dirigente senza retribuirgli il tempo dedicato a tale attività: difatti in tal caso il dipendente potrà agire in sede giudiziale civile e proprio ai sensi dell’art. 37 comma 12 del D. Lgs. n. 81/2008, potrà richiedere il rimborso del costo della formazione dovuto alla mancata retribuzione del tempo dedicato alla stessa nonché gli interessi e la rivalutazione degli importi così determinati.
 
Il D.Lgs 81/2008 pone in effetti al centro della strategia prevenzionistica l’obbligo formativo, informativo e di addestramento (ove necessario, in conformità dei pertinenti aspetti del documento di valutazione dei rischi di cui all’articolo 28 c. 2 lettere b, d e f e 29 del D.Lgs. n. 81/2008): si vedano  gli art. 18 c. 1 lett. l, 36, 37, 28 c. 2 lett. e) ed f).
Il D.Lgs. n. 106/2009 ha potenziato tali obblighi in modo incisivo, definendone analiticamente contenuti e modalità e individuando negli accordi Stato-Regioni lo strumento di attuazione completa del dettato normativo.
Nello specifico, le modalità della formazione, i contenuti minimi e la durata dei corsi sono appunto stabiliti dalla Conferenza Stato-Regioni entro 12 mesi dall’entrata in vigore del D.Lgs. n. 81/2008. Il testo dell’Accordo è stato dapprima definito in sede tecnica e poi approvato in sede politica il 21.12.2011.
 
Per i lavoratori, la formazione e, ove previsto, l’addestramento specifico devono avvenire in occasione:
1. della costituzione del rapporto di lavoro o dell’inizio dell’utilizzazione qualora si tratti di somministrazione di lavoro;
2. del trasferimento o cambiamento di mansioni;
3. della introduzione di nuove attrezzature di lavoro o di nuove tecnologie, di nuove sostanze e preparati pericolosi.
 
Vediamo alcuni capisaldi dell’art. 37 del decreto n. 81/2008.
 
Obbligatorietà della verifica del livello di apprendimentoper tutti i soggetti da formare, a cominciare dai lavoratori [art. 37 c. 1 secondo il quale la formazione deve essere“sufficiente e adeguata”  al fine di “trasferire  ai  lavoratori  ed  agli  altri  soggetti  del sistema di prevenzione  e protezione aziendale conoscenze e procedure utili alla acquisizione  di  competenze  per  lo  svolgimento  in  sicurezza dei rispettivi  compiti in azienda e alla identificazione, alla riduzione e alla gestione dei rischi”(art. 2 c. 1 lett. aa D.Lgs. n. 81/2008), e questa adeguatezza è impossibile da provare in mancanza di verifica dell’apprendimento], passando per i  preposti e dirigenti [art. 37 comma 7 che prescrive che anch’essi ricevano “un’adeguata e specifica formazione e un aggiornamento periodico in relazione ai propri compiti”, e vale qui lo stesso discorso fatto in precedenza per i lavoratori] fino agli RLS(art. 37 comma 11);
La   formazione per gli RLS deve avere al proprio interno 12 delle 32 ore previste dedicate ai “rischi specifici” dell’azienda nella quale svolgono la loro fondamentale funzione di rappresentanza del diritto alla sicurezza e alla salute dei lavoratori: si tratta di un obbligo minimo inderogabile sottratto alla contrattazione collettiva e se non rispettato tale da invalidare la formazione dell’RLS, con conseguente sanzione a carico del datore di lavoro.
Per gli RLS è previsto l’obbligo datoriale di far loro frequentare un aggiornamento periodico annuale della formazione, che trova la sua disciplina di dettaglio nei contratti collettivi (se gli stessi sono carenti si farà la formazione in aggiornamento a prescindere dalla contrattazione collettiva): per le aziende che hanno meno di 15 dipendenti non è prevista una durata minima del corso di aggiornamento, che quindi ragionevolmente può spaziare da una alle quattro ore, ed è invece di non meno di 4 ore per le imprese che occupano tra i 15 e i 50 lavoratori e di non meno di 8 ore per le imprese con più di 50 dipendenti.
 
L’articolo 37 del D.Lgs. n. 81/2008 prevede, ed auspica, la registrazione nel   libretto formativo del cittadino delle competenze acquisite a seguito dell’attività di formazione.
Tuttavia il legislatore, prendendo atto che la previsione normativa del libretto non si è concretamente realizzata a livello nazionale (fatti salvi sporadici tentativi locali, che mettono ancor più in evidenza il colpevole ritardo istituzionale nell’adottare un documento che sarebbe di grande utilità per le imprese che assumono personale magari già formato ma privo di attestazione), con il D.Lgs. n. 106/2009 ha modificato l’art. 37 comma 12, ha precisando che l’obbligo di registrazione sul libretto opera “se concretamente disponibile in quanto attivato nel rispetto delle vigenti disposizioni”.
 
In relazione al ruolo di particolare rilevanza rivestito, per il preposto (il garante del controllo sull’esecuzione in sicurezza del lavoro, persona che sovrintende alla attività lavorativa, controlla che avvengano nel rispetto delle disposizioni aziendali e garantisce l’attuazione delle direttive ricevute) e per il dirigente (che è il garante organizzativo della sicurezza in azienda) è prevista una formazione, specifica e periodicamente aggiornata, non più solo in azienda come inizialmente previsto dal D.Lgs. n. 81/2008 ma anche fuori azienda (il D.Lgs. n. 106/2009 ha eliminato l’inciso inizialmente contenuto nell’art. 37 comma 7 del D.Lgs. n. 81/2008 per il quale la formazione dei preposti, e dei dirigenti, poteva avvenire solo in azienda) in materia di:
1. principali soggetti coinvolti e i relativi obblighi;
2. definizione e individuazione dei fattori di rischio;
3. valutazione dei rischi;
4. individuazione delle misure tecniche, organizzative e procedurali di prevenzione e protezione (art. 37 comma 7 del D.Lgs. n. 81/2008 come modificato dal D.Lgs. n. 106/2009).
 
L’accordo Stato Regioni del 21 dicembre 2011 sulla formazione definisce i contenuti e le modalità formative in modo inderogabile, ed è stato meglio definito a livello applicativo dal successivo accordo interpretativo del 25 luglio 2012.
 
collaboratori familiari e i lavoratori autonomi hanno facoltà con oneri a proprio carico, in base all’articolo 21 D.Lgs. n. 81/2008, di fruire della formazione in materia di sicurezza (e di sottoporsi alla sorveglianza sanitaria) e in tal senso gli accordi citati li includono nei soggetti beneficiari di tale formazione. Non è inutile sottolineare che il committente il quale incautamente affida lavori, servizi e forniture a soggetti esterni privi di formazione (e di sorveglianza sanitaria) si assume rilevanti responsabilità, e deve inoltre descrivere la circostanza nei documenti aziendali di valutazione dei rischi, ovvero il DVR e il DUVRI. Meglio è perciò vietare l’ingresso in azienda a lavoratori autonomi e imprese familiari privi di formazione e sorveglianza sanitaria.
 
 
Le modifiche introdotte dal DLgs 106/09 all’allegato XVII [del D.Lgs. n. 81/2008]  che indica tra i documenti da esibire da parte del   lavoratore autonomo gli “attestati inerenti la propria formazione e la relativa idoneità sanitaria ove espressamente previsti dal presente decreto legislativo”non cambiano gli obblighi del committente (o del responsabile dei lavori).
Quindi: se da un lato la sorveglianza sanitaria, e la partecipazione a corsi di formazione, costituisce una facoltà del lavoratore autonomo [art. 21 D.Lgs. n.81/2008], dall’altro il tenore dell’Allegato XVII porta a ritenere vincolante l’esibizione della relativa documentazione al committente ai fini della verifica dell’idoneità tecnico professionale.
Con la conseguenza che un lavoratore autonomo può anche non sottoporsi a sorveglianza sanitaria e non partecipare a corsi di formazione, ma in tal caso un committente di lavori edili o di ingegneria civile non può legittimamente affidargli tali lavori.
 
 
Provvisoriamente rimane in vigore il   Dm 10 Marzo 1998 per gli addetti all’antincendio, in attesa che l’accordo Stato-Regione stabilisca i nuovi criteri per la formazione e l’aggiornamento degliaddetti alle emergenze.
Nel frattempo restano in vigore i precedenti obblighi formativi così come definiti dal DM citato, fatta salva la novità immediatamente operativa dell’aggiornamento periodico, che in ossequio al principio di analogia (art. 12 D.P. al Codice Civile) potrebbe essere almeno triennale, come previsto nel D.M. n. 388/2003 per gli addetti al primo soccorso, ed eventualmente con otto o sei ore di formazione per il rischio alto.
La  circolare del Ministero degli interni Dipartimento Vigili del Fuoco 23.02.2011 ha definito durata (2-5-8 ore a seconda se l’attività è a rischio basso, medio o alto) e i contenuti di detti aggiornamento antincendio.
 
Richiamando la propria giurisprudenza,la Suprema Corte ha affermato che “in tema di prevenzione di infortuni, il datore di lavoro deve controllare che siano osservate le disposizioni di legge e quelle, eventualmente in aggiunta, impartite [al lavoratore]; ne consegue che, nell’esercizio dell’attività lavorativa, in caso di infortunio del dipendente, la condotta del datore di lavoro che sia venuto meno ai doveri di formazione e informazione del lavoratore e che abbia omesso ogni forma di sorveglianza circa la pericolosa prassi operativa instauratasi, integra il reato di lesione colposa aggravato dalla violazione delle norme antinfortunistiche”. “È infatti il datore di lavoro che, quale responsabile della sicurezza del lavoro, deve operare un controllo continuo e pressante per imporre che i lavoratori rispettino la normativa e sfuggano alla tentazione, sempre presente, di sottrarvisi anche instaurando prassi di lavoro non corrette“.
 
Secondo la Cassazione, “tali conclusioni si evincono non solo dallo stesso, richiamato dal ricorrente, art. 4 d. l.vo 19.9.1994 n. 626 [ora art. 18 D.Lgs. n. 81/2008], che non pone a carico del datore di lavoro il solo obbligo di allestire le misure di sicurezza, ma anche una serie di controlli diretti o per interposta persona, atti a garantirne l’applicazione, ma soprattutto dalla norma generale di cui all’art. 2087 Codice Civile, la quale dispone che“l’imprenditore è tenuto ad adottare nell’esercizio dell’impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro,  l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro” [Corte di Cassazione – Quarta Sezione Penale, Sentenza 23 ottobre 2008, n. 39888]. Si tratta dell’obbligo della massima sicurezza tecnica, organizzativa e procedurale concretamente attuabile.

I quesiti sul decreto 81. Come individuare il dirigente e il preposto

Maggio 13, 2015 By: PolissFormazione Category: Senza categoria

La domanda
Se in un organigramma della sicurezza e nel DVR ad esso collegato non sono individuati preposti e/o dirigenti per la sicurezza, la formazione deve esplicitare il percorso in caso di presenza delle figure sopra riportate? In caso di verifica di conformità legislativa (o meglio di applicazione degli obblighi del D.Lgs. 81/08) da quali elementi si potrebbe desumere la presenza di preposti e/o dirigenti e quindi la loro mancata formazione?
 
La risposta
L’Azienda deve obbligatoriamente indicare nel documento di valutazione dei rischi i preposti e i dirigenti (qualora presenti, tenendo conto che la legge all’art. 18 del D.Lgs. n. 81/2008 obbliga datori di lavoro e dirigenti a vigilare, su preposti e lavoratori; quindi qualora non vi siano, ad esempio, preposti dovrà nel DVR, il datore di lavoro, spiegare in che modo procede alla vigilanza sui lavoratori, di norma svolta dai preposti), che devono in precedenza essere stati individuati dal datore di lavoro e/o dai dirigenti, come da organigramma  e anche in base ai compiti effettivamente svolti, tutto ai sensi di quanto segue, legge e giurisprudenza.
 
D.Lgs. n. 81/2008 Articolo 28 – Oggetto della valutazione  dei rischi
2. Il documento di cui all’articolo 17, comma 1,  lettera a), redatto a conclusione della valutazione può essere tenuto, nel  rispetto delle previsioni di cui all’articolo 53 del decreto, su supporto  informatico e, deve (…) contenere:
(…)
d) l’individuazione  delle procedure per l’attuazione delle misure da realizzare, nonché dei ruoli  dell’organizzazione aziendale che vi debbono provvedere, a cui devono essere  assegnati unicamente soggetti in possesso di adeguate competenze e poteri;
(…)
 
Questo obbligo va coordinato con l’art. 37 del D.Lgs. n. 81/2008 che prevede l’obbligo di formazione, in particolare di  dirigenti e preposti.
 
Articolo 37 – Formazione dei lavoratori e dei loro  rappresentanti
(…)
7. I dirigenti e i preposti ricevono a cura del  datore di lavoro, un’adeguata e specifica formazione e un
aggiornamento periodico in relazione ai propri  compiti in materia di salute e sicurezza del lavoro. I contenuti della
1. formazione di cui al presente comma comprendono:
a) principali soggetti coinvolti e i relativi  obblighi;
b) definizione e individuazione dei fattori di  rischio;
c) valutazione dei rischi;
d) individuazione delle misure tecniche,  organizzative e procedurali di prevenzione e protezione
(…)
 
E’ chiaro che è impossibile adempiere a tale obbligo se il DVR non li ha individuati, e non ha definito esattamente i loro compiti in materia di salute e sicurezza del lavoro.
 
Il fondamentale principio di supremazia
Il principio della supremazia è un  criterio comunemente utilizzato per individuare il dirigente (ma anche il preposto) in “chiunque, in qualsiasi modo, abbia assunto posizione di preminenza rispetto ad altri lavoratori così da poter loro impartire ordini, istruzioni o direttive sul lavoro da eseguire, deve considerarsi automaticamente tenuto, ai sensi dell’art. 4 del DPR 547/55, DPR 303/56 e D. Lgs. 626/94 [oggi D.Lgs.n. 81/2008 artt. 2 comma 1 lett. d) e 18], ad attuare le prescritte misure di sicurezza e a disporre e ad esigere che esse siano rispettate, a nulla rilevando che vi siano altri soggetti contemporaneamente gravati dallo stesso obbligo per un diverso e autonomo titolo” (Cass. Pen., sez. IV, 20/1/98 e 19/2/98), e rivelandosi così un    effettivo dirigente (o preposto).
 
Una sentenza (Cass. Pen. Sez. IV 1/7/1992, Boano in Cass. Pen. 1994, pag. 388 n. 285) ha evidenziato nel modo più chiaro possibile che i dirigenti [e i preposti], in senso lato, sono  daidentificarsi nei soggetti preposti alla direzione tecnico-amministrativa dell’azienda  o di un reparto di essa con la diretta responsabilità dell’andamento dei servizi, come i dirigenti tecnici o amministrativi, i capi ufficio o i capi reparto, e che devono predisporre tutte le misure di sicurezza fornite dal capo dell’impresa e previste dalle norme, controllare le modalità del processo di lavorazione ed attuare nuove misure, anche non previste dalla normativa, necessarie per tutelare la sicurezza in relazione a particolari lavorazioni che si svolgono in condizioni non previste o non prevedibili dal legislatore.
 
Il riferimento al principio dell’effettività ha portato la Cassazione (Cass. sez. IV 5/4/1994 n. 3484, Pozzati ed altro) a considerare dirigente anche il soggetto che, pur non ricoprendo nell’organigramma aziendale tale posizione, aveva di fatto impartito l’ordine di effettuare un lavoro.  In particolare si è ritenuto che “chi dà in concreto l’ordine di effettuare un lavoro, anche se non impartisce direttive circa le modalità di esecuzione, assume di fatto la mansione di dirigente, sicché ha il dovere di accertarsi che il lavoro venga svolto nel rispetto delle norme antinfortunistiche, non potendo essere lasciato agli operai la scelta dello strumento da utilizzare“.
 
La differenza tra dirigente e preposto può essere così sintetizzata, secondo Cass., sez. 4 pen., 1° giugno 2007, n. 21593: “Seppure in materia antinfortunistica debbano ritenersi destinatari delle disposizioni di prevenzione tutti coloro che presiedono all’organizzazione del lavoro aziendale, è chiaro che per dirigenti si intendono i dipendenti che hanno il compito di impartire ordini ed esercitare la necessaria vigilanza, in conformità alle scelte di politica d’impresa adottate dagli organi di vertice che formano la volontà dell’ente (essi rappresentano, dunque, l’alter ego del  datore di lavoro, nell’ambito delle competenze loro attribuite e nei limiti dei poteri decisionali e di spesa loro conferiti); i preposti sono, invece, coloro i quali vigilano sull’attività lavorativa degli altri dipendenti, per garantire che essa si svolga nel rispetto delle regole prevenzionali, e che sono forniti di un limitato potere di impartire ordini e istruzioni, peraltro dinatura tendenzialmente (a volte meramente) esecutiva”.
 
La individuazione dei destinatari delle norme antinfortunistiche [datore di lavoro, dirigenti e preposti] “va compiuta non tanto in relazione alla qualifica rivestita nell’ambito dell’organizzazione aziendale ed imprenditoriale quanto, soprattutto, con riferimento alle reali mansioni esercitate che importino le assunzioni di fatto delle responsabilità a quelle inerenti, la qualifica e le responsabilità del preposto non competono soltanto ai soggetti forniti di titoli professionali o di formali investiture, ma a chiunque si trovi in una posizione di supremazia, sia pure embrionale, tale da porlo in condizioni di dirigere l’attività lavorativa di altri operai soggetti ai suoi ordini; in sostanza preposto può essere chiunque, in una formazione per quanto piccola di lavoratori, esplichi le mansioni di caposquadra al di fuori della immediata direzione di altra persona a lui soprastante” (Corte di Cassazione Penale, 6 luglio 1988 n° 7999, Chierici ed altro, in motivazione).
 
Il tutto ai sensi e per gli effetti del D.Lgs. n. 81/2008, Articolo 299 – Esercizio di fatto di poteri direttivi: Le posizioni di garanzia relative ai soggetti di cui all’articolo 2, comma 1, lettere b) [datore di lavoro], d) [dirigente] ed e) [preposto], gravano altresì su colui il quale, pur sprovvisto di regolare investitura, eserciti in concreto i poteri giuridici riferiti a ciascuno dei soggetti ivi definiti.

Mobbing: le responsabilità organizzative

Maggio 13, 2015 By: PolissFormazione Category: Senza categoria

E’ fondamentale rendersi conto che il Mobbing è un sintomo, cioè la manifestazione di un conflitto tra individui all’interno delle organizzazioni; tuttavia questa interpretazione può impedire di cercare altre possibili cause. E’ dunque di primaria importanza considerare anche gli aspetti organizzativi dell’azienda.
 
Una distinzione importante da fare, ma non sempre attuabile, consiste nell’individuare dove finisce una gestione manageriale rigida e dove inizia il Mobbing. C’è una discrepanza tra come le organizzazioni descrivono la loro gestione e cosa effettivamente fanno. In alcune aziende con elevata competizione interna e forte pressione per raggiungere i risultati, ed in cui predominano modalità relazionali basate sull’aggressività, alcuni tipi di comportamento, assimilabili al Mobbing, vengono accettati dai membri del gruppo lavorativo. Inoltre in altre aziende vengono tollerati comportamenti normalmente inaccettabili se questi vengono messi
in atto da persone che occupano una certa posizione gerarchica al suo interno.
 
Le cause per cui il Mobbing può nascere e svilupparsi, anche in un ambiente di lavoro precedentemente alieno da qualsiasi fenomeno aggressivo costituiscono una materia affascinante e di importanza cruciale per la comprensione e prevenzione di questo processo.
 
Il Mobbing può essere intenzionalmente perseguito dall’azienda datrice di lavoro come strategia specifica di gestione del personale; tuttavia, nella maggior parte dei casi esso è causato da colleghi, da capi o da sottoposti per svariate ragioni, dall’ambizione, alla gelosia,
alla semplice antipatia personale. In questi casi, il Mobbing si sviluppa completamente all’oscuro della Direzione aziendale.
Quando il Mobbing è una strategia d’azione dell’azienda si parla di “Bossing”.
Il Bossing è una forma di terrorismo psicologico che viene programmato dall’azienda stessa o dai vertici dirigenziali ai danni di dipendenti divenuti in qualche modo , che si vuole eliminare. Il Mobbing dunque si trasforma in una vera e propria politica aziendale, assumendo caratteri di normalità e di ineluttabilità.
Ci sono aziende che perseguono deliberatamente una politica di Bossing per terrorizzare i dipendenti ed indurli così ad accettare lavori umilianti, ritmi particolarmente sostenuti o paghe irrisorie. Altre volte il Bossing viene utilizzato come una vera e propria strategia di riduzione del personale: si semina il panico e si crea appositamente un clima organizzativo pessimo, in modo da spingere i dipendenti alle dimissioni.
Il Bossing può attuarsi in modi diversi, ma tutti tendono alla creazione, attorno alla persona da eliminare, di un clima insopportabile: atteggiamenti severi, minacce, rimproveri, a volte anche sabotaggi venuti dall’alto, difficilmente dimostrabili.
Quasi sempre si gioca ad ogni livello possibile: si tratta di una vera e propria ricerca finalizzata a distruggere i dipendenti (o un dipendente specifico). Spesso anche un semplice ed insignificante errore di distrazione commesso nella compilazione di un modulo può diventare per il datore di lavoro uno strumento di persecuzione e di accusa. Siamo di fronte a programmi normalmente difficili da capire, in cui più o meno tutto è permesso: il mobber, l’aggressore, è l’azienda stessa che, evidentemente, ha il coltello dalla parte del manico.
Altre volte l’azienda non ha nemmeno bisogno di ricorrere a mezzi estremi: è sufficiente già togliere al dipendente scomodo i suoi status-simbol così duramente guadagnati (la macchina dell’azienda, il telefono cellulare, etc.), oppure affidargli di punto in bianco dei lavori in cui egli si trovi non soltanto degradato e dequalificato, ma anche privato di qualsiasi opportunità di compiere qualcosa di costruttivo.
Ci sono addirittura delle aziende che giocano si può dire “a carte scoperte”, attuando veri e propri ricatti nei confronti dei dipendenti da eliminare del tipo: ”Se Lei non vuole andarsene, allora da oggi in poi può occuparsi dell’archivio, o del magazzino”. Senza parlare di tutta la serie delle transazioni che possono essere proposte al dipendente (il più delle volte senza che egli abbia effettivamente nessuna scelta), giocando sulla sua necessità di mantenere in qualche modo il suo posto di lavoro.
Il Bossing esiste ed è documentato in tutta Europa; in Italia trova più che mai condizioni favorevoli per prosperare grazie alla crisi latente e continuativa che causa necessariamente un elevato livello di disoccupazione e, conseguentemente, un’altissima paura da parte dei lavoratori di perdere il proprio posto. In questa situazione la pressione che il datore di lavoro ha la possibilità di esercitare sul dipendente con la minaccia del licenziamento diventa facilmente uno strumento di Bossing, o Mobbing pianificato.
La facilità con cui sempre più ditte ricorrono a questi mezzi poco ortodossi per operare rivoluzioni nel proprio personale è impressionante e direttamente collegata al clima di crisi economica in cui il mondo industrializzato si dibatte ormai da anni. Tuttavia, chi pratica il Bossing evidentemente non conosce, o non si rende conto, delle conseguenze deleterie che alla lunga potrebbero rivelarsi.

Il rifiuto di indossare le scarpe antinfortunistiche

Maggio 13, 2015 By: PolissFormazione Category: Senza categoria

 

scarpaCome risolvere il problema del lavoratore che presenta certificazioni mediche attestanti l’impossibilità di calzare scarpe antinfortunistiche?
 
Una situazione problematica, talmente comune da potersi definire addirittura «quotidiana», che le figure della sicurezza si trovano ad affrontare, è quella del lavoratore che rifiuta di indossare le scarpe antinfortunistiche.
 
In questo articolo verrà illustrato quali sono gli obblighi del datore di lavoro a riguardo, analizzando come comportarsi anche nella situazione limite in cui il lavoratore dovesse esibire certificazioni mediche attestanti l’impossibilità di calzare scarpe antinfortunistiche; verrà infine analizzato il problema della ripartizione delle spese nel caso in cui un lavoratore richieda che l’azienda gli paghi un plantare necessario ad indossare le scarpe antinfortunistiche.
 
 
Quando è obbligatorio indossare le scarpe antinfortunistiche
Per comprendere integralmente gli  obblighi del datore di lavoro in materia di dispositivi di protezione individuale (DPI)è necessario partire dal ruolo centrale che la giurisprudenza di legittimità, in modo assolutamente uniforme, affida all’art.2087 c.c..
 
Con l’osservanza della normativa specifica, però, non si esauriscono gli obblighi di sicurezza del datore di lavoro in quanto, rappresentando l’art.2087 c.c. norma di chiusura del sistema antinfortunistico, il datore di lavoro è tenuto ad adottare anche quelle misure che, pur non previste dalla legge come obbligatorie, dovessero rendersi necessarie in base alla particolarità del tipo di lavoro svolto.
 
E’ da sottolineare come, nella formulazione scelta dal legislatore dell’art.2087 c.c., le misure necessarie alla tutela dell’integrità fisica del lavoratore debbano essere adottate «in base alla esperienza»: Tale formulazione rimanda logicamente al concetto di «prevedibilità del rischio»: “In materia di eventi colposi per violazione di regole antinfortunistiche, allorchè siano contestate l’imprudenza, la negligenza e l’imperizia, il criterio per l’individuazione della colpa è data dal ricorso al concetto di prevedibilità, ossia il principio che, fuori dell’ipotesi di inosservanza di specifiche prescrizioni normative, possono ascriversi a colpa solo quegli eventi che, in relazione alle particolari circostanze del caso concreto, siano prevedibili dal soggetto al momento della realizzazione della sua condotta. Ne consegue che non può pretendersi l’adozione di accorgimenti per fronteggiare evenienze infortunistiche assolutamente impensabili ed eccezionali in base alla comune esperienza” (Cass. Pen. sez. IV, 8.6.87 n.7130). Nello stesso art.384 del DPR 547/55, del resto, il legislatore optava per una formulazione per così dire «aperta», senza indicare «tutti» i lavori in cui le scarpe antinfortunistiche sono obbligatorie: “Per la protezione dei piedi nelle lavorazioni in cui esistono specifici pericoli di ustioni, di causticazione, di punture o di schiacciamento, i lavoratori devono essere provvisti di calzature resistenti ed adatte alla particolare natura del rischio. Tali calzature devono potersi sfilare rapidamente”.
 
Dunque, nei casi in cui non esista un obbligo di comportamento imposto tassativamente dalla legge – in quanto già valutato come pericoloso dal legislatore – sarà il datore di lavoro a valutare, sotto propria responsabilità, se tale rischio appaia «prevedibile» o meno: di conseguenza, in caso di infortunio dovuto a mancanza di scarpe antinfortunistiche, il datore di lavoro dovrà cercare di dimostrare al giudice come tale rischio di schiacciamento non fosse ragionevolmente prevedibile.
 
Per riassumere, l’obbligo di indossare le scarpe antinfortunistiche scatta:
(tale elenco è costituito dal punto 3 dell’allegato VIII del D.Lgs 81/2008)
 
Comunque, ogni qualvolta risulti «prevedibile» un rischio di lesioni ai piedi: tale prevedibilità dovrà essere valutata dal SPP in sede di valutazione dei rischi.
 
Il principio di prevedibilità del rischio
Ma allora quando un rischio può essere definito«prevedibile»? In passato la Corte di Cassazione ha mantenuto un atteggiamento estremamente severo in materia di prevedibilità del rischio: ne rappresenta l’archetipo la sentenza Cass. 19.4.90, in cui il datore di lavoro veniva condannato in violazione dell’art.382 del DPR 547/55 nel sinistro occorso ad cantoniere che, sorvegliando e dirigendo il traffico, veniva colpito da sasso mosso da taglia erbe manovrato da un collega a ben 36 metri di distanza.
 
Nella fattispecie di lesione all’occhio dovuta a chiodo che rimbalzava all’indietro mentre veniva piantato con un martello, la Suprema Corte aveva modo di affermare come “l’art.382 del DPR 547 del 27.4.1955 si riferisce non solo alle lavorazioni in cui tali proiezioni siano abituali, ma anche alle lavorazioni in cui le proiezioni siano eccezionali e contingenti. Trattasi infatti di una norma a carattere generale, non contenente una elencazione tassative di attività per cui è necessaria la misura cautelare e pertanto rientra nella previsione qualsiasi tipo di lavoro, compreso quello edile, anche se il pericolo di proiezione di schegge non sia molto probabile” (Cass. sez. IV pen. 19.10.90 n.13944, Timpano). A queste sono seguite una serie di condanne, sempre per violazione dell’art.382 del DPR 547/55, nel caso di lesioni agli occhi dovute ad chiodo che spezzatosi inchiodando una tavola (Cass.2.5.94, Attili; Cass. 17.12.81), dovute a punta del trapano spezzatasi (Cass. 15.3.1983), a scheggia di malta o metallica pulendo manualmente una carriola (Cass. 30.5.83) o a scheggia di alluminio nel travaso di alluminio fuso (Cass. 10.7.90, Filippini).
 
Molto interessante risulta l’inclusione (Cass. sez. IV pen., 7.3.1990 n.3255, Talleri) tra in rischi prevedibili che obbligano il datore di lavoro a fornire DPI (giubbotto antiproiettile) il caso di guardia giurata ferita durante una  rapinaad una banca.
 
In Cass. sez. III penale 12.7.1989 n.10166, Machetta veniva esclusa, invece, la responsabilità del datore di lavoro in caso di infortunio al piede ad un lavoratore impegnato nella manipolazione di listelli di legno del peso massimo di 2 Kg e che venivano sollevato da terra al massimo due centimetri.
 
Una delle sentenze in cui viene più lucidamente ed esplicitamente affrontato il tema della «prevedibilità» del rischio rimane, però, senza dubbio Cass. penale sez. III, 27.08.1997, Colucci: “Presupposto per la sussistenza del reato di cui all’art.382 D.P.R.27 Aprile 1955 n.547 è che il dipendente eserciti un lavoro che lo esponga a rischi di offesa agli occhi, perché solo in tal caso il datore di lavoro lo deve munire di occhiali, visiere o altri appropriati dispositivi di protezione individuale. Rischio equivale a pericolo, cioè a “probabilità” di danno, che è notoriamente nozione diversa dalla mera “possibilità” di danno: per questa ragione è illegittimo argomentare che dal momento che un danno si è verificato nell’esercizio di una determinata mansione, per ciò stesso quella mansione presenta il rischio relativo (cioè la probabilità e non la mera possibilità di danno)”. In questa sentenza la Corte ha pertanto modo di distinguere in modo approfondito tra i concetti di «probabilità» di danno e di semplice«possibilità», riconducendo, pertanto, il concetto di colpa esclusivamente alla«prevedibilità» del rischio: d’altronde, individuando nella «semplice possibilità» la linea di demarcazione penale, si finirebbe, ad esempio anche con il dovere imporre  occhiali di protezione anche agli impiegati, dato che seno pur sempre «possibili»incidenti agli occhi con penne o altri oggetti da scrivania; inoltre, una tale interpretazione finirebbe con il valutare la condotta del datore di lavoro «ex post», cioè con il senno del poi, il che non appare giuridicamente corretto. Ovviamente, poi, nella valutazione, va tenuto presente anche la potenziale gravità dell’infortunio per cui la scelta e l’entità delle protezioni deve essere più rigorosa in caso di danni gravi.
 
Da rimarcare come nel caso in cui il legislatore indichi esplicitamente l’obbligo di un DPI in una certa lavorazione (vedi appunto l’allegato VIII del D.Lgs 81/2008), la mancata fornitura di DPI integri la violazione di una «norma di puro pericolo» già di per sé sanzionabile: il reato, infatti, ” …si realizza con la semplice omissione di tale fornitura al lavoratore dipendente, atteso che la norma incriminatrice non esige anche che ne derivi una situazione di pericolo per l’incolumità”, e cioè anche qualora se non si verifichi nessun infortunio.
 
Infine, ovviamente, non bisogna mai confondere un DPI con un semplice indumento da lavoro (Cass. Pen., IV, 21 giugno 1993. Baccilieri)
 
Il principio di sussidiarietà
Di fronte ad un rischio di infortunio o di  malattia professionale, sia che questo sia stato indicato tassativamente dal legislatore mediante apposito precetto legislativo, sia che questo emerga dalla particolarità del lavoro mediante la valutazione dei rischi aziendali, sono sempre da privilegiarsi le misure che consentono la “riduzione dei rischi alla fonte” e la “priorità delle misure di protezione collettiva rispetto alle misure di protezione individuale” (art.15 comma 1 e-i D.Lgs 81/2008) secondo il consolidato principio di sussidiarietà. Coerentemente, all’art. 75 comma 1 del D.Lgs 81/2008 si legge come “I DPI devono essere impiegati quando i rischi non possono essere evitati o sufficientemente ridotti da misure tecniche di prevenzione, da mezzi di protezione collettiva, da misure, metodi o procedimenti di riorganizzazione del lavoro”.
 
In caso di esposizione a rischio di  rumore, ad esempio, prima di imporre l’uso di tappi o cuffie, il datore di lavoro dovrà prima assicurarsi di avere fatto tutto quanto tecnicamente fattibile per abbattere il rumore alla sorgente e, solo una volta assolto a tale compito, potrà imporre «sussidiariamente» con intransigenza l’utilizzo di cuffie o tappi.
 
Nel caso delle scarpe antinfortunistiche, invece, tale problema raramente sussiste, non esistendo, nella stragrande maggioranza delle tipologie di lavoro, misure alla fonte o di tutela collettiva in grado di eliminare il rischio di lesioni ai piedi.
 
Gli obblighi di sorveglianza del datore di lavoro sull’utilizzo di DPI
I doveri degli imprenditori non si limitano a fornire i  DPI, a disporre che questi vengano utilizzati e a fornire alcune informazioni sul corretto utilizzo di questi: l’art.18 comma 1f del D.Lgs 81/2008 infatti, impone all’imprenditore di richiedere l’osservanza da parte dei singoli lavoratori delle norme vigenti, dell’uso dei mezzi di protezione collettivi e dei dispositivi di protezione individuali messi a loro disposizione.
 
Gli artt.20 comma 1d e 78 comma 2 del D.Lgs 81/2008, che obbligano i lavoratori ad utilizzare in modo appropriato i DPI potrebbero essere utili, al massimo, per individuare una corresponsabilità del lavoratore, ma non esentano in alcun modo il datore di lavoro dai propri obblighi, specie alla luce del principio di equivalenza causale sancito dall’art.41 c.p.
 
Infatti, “in tema di prevenzione infortuni, il datore di lavoro non solo deve approntare le misure antinfortunistiche, ma ha anche l’obbligo di vigilare, affinché tali misure siano attuate ed i lavoratori si avvalgano dei dispositivi di protezione messi a loro disposizione” (Cass. penale, sez. IV, 22-03-1984 n. 2681, Collodel) dato che “non basta porre a disposizione dei dipendenti i presidi antinfortunistici” in quanto “è necessario pretendere ed imporne l’uso effettivo e vigilare perché ciò avvenga” (Cass. pen.sez.IV 20.1.98 n. 644, Compagno),o ancora “… il controllo che il datore di lavoro deve esercitare sull’operato dei dipendenti perché non si verifichino infortuni sul lavoro, essendo finalizzato a tutela l’integrità psico-fisica del lavoratore, non può risolversi nella messa a disposizione di questi ultimi dei presidi antinfortunistici e nel generico invito a servirsene ma deve costituire una delle particolari attività dell’imprenditore, gravando su questo l’onere di fare cultura sul rispetto delle norme antinfortunistiche, di svolgere continua, assidua azione pedagogica, con il ricorso, se del caso, anche a sanzioni disciplinari nei confronti dei lavoratori che non si adeguino alle citate disposizioni” (Cass. Pen. Sez. IV, 6.10.95 ); è pertanto colpevole il DDL che”… a conoscenza del comportamento più volte tenuto dal lavoratore in violazione della norma antinfortunistica, lo abbia ripetutamente ripreso ed invitato ad attenersi alle disposizioni ma, di fronte all’inottemperanza del predetto, non abbia adottato più decisi provvedimenti idonei ad evitare comunque la violazione delle misure di sicurezza” (Cass. pen. sez. IV, 9.12.96, Capo e altro).
 
Però, specialmente nelle regioni dove la disoccupazione è a livelli più bassi ed è difficile trovare operai con professionalità specifiche, i datori di lavoro sovente si trovano in grossa difficoltà ad imporre l’uso della sicurezza in generale e in particolar modo dei DPI. E’ del resto noto come gli operai più anziani, più esperti e professionalmente competenti, siano spesso quelli più riluttanti a cambiare abitudini di lavoro e in questi casi il datore di lavoro si trova in imbarazzo ad applicare sanzioni disciplinari a dipendenti che potrebbero per questo dimettersi, lasciando un vuoto di professionalità non colmabile e con conseguente danno grave per l’azienda.
 
Sul piano giuridico, però, queste difficoltà pratiche nulla cambiano in materia di obblighi penalmente rilevanti per il datore di lavoro: un lavoratore che lavori senza scarpe antinfortunistiche in una  mansionea rischio rappresenta una situazione di pericolo permanente e «conoscibile» per il datore di lavoro, pericolo che fa automaticamente sorgere un corrispondente e tassativo obbligo per questi di attivarsi e rimuovere prontamente il rischio»).
 
Le esenzioni mediche dall’indossare i DPI
Il problema apparentemente si complica, però, quando il lavoratore presenta un certificato del medico curante o di uno specialista in cui viene certificata l’impossibilità ad indossare una scarpa antinfortunistica. In genere la documentazione medica si riferisce a patologie che il sanitario ritiene causate dalla scarpa o comunque a patologie che il continuare ad indossare la scarpa potrebbe aggravare. Le lamentele dei lavoratori in genere riguardano il peso della scarpa, la rigidità della suola e il fatto che il puntale in acciaio, nell’atto di accovacciarsi, preme sui metatarsi. Altre motivazioni classiche sono rappresentate, ad esempio, dall’eccessiva sudorazione che peggiorerebbe preesistenti micosi (piede d’atleta) o da malformazioni del piede incompatibili con la scarpa.
 
L’art.76 comma 2c del DLgs 81/2008, che afferma come un DPI debba “tenere conto delle esigenze ergonomiche o di salute del lavoratore” e il comma d, che afferma come i DPI debbano “poter essere adattati all’utilizzatore secondo le sue necessità”, potrebbero indurre erroneamente molti a pensare che un certificato medico possa a questo punto costituire valido documento per esentare il lavoratore dall’indossare le scarpe. Non siamo a conoscenza di sentenze della Corte di Cassazione che abbiano affrontato nello specifico casi del genere, ma è abbastanza logico prevedere come anche in questo caso l’obbligo impositivo del datore di lavoro non venga meno in quanto:
 
L’art.41 della Costituzione garantisce all’imprenditore libertà di impresa a condizione che questa non si svolga contro la utilità e la sicurezza sociale. Allo scopo di bilanciare i diritti tutelati dagli articoli 41 e 32 della Costituzione, il legislatore ha formulato l’art.2087 c.c. che impone al datore di lavoro di adottare tutte le misure che dovessero rendersi necessarie per la tutela dell’ integrità psico-fisica del lavoratore.
 
La salute, rappresentando uno dei «diritti fondamentali»protetti della Costituzione e rappresentando «interesse della collettività»(art.32 Cost.) , rappresenta tipico esempio di «diritto indisponibile»: come tutti i diritti indisponibili non è pertanto suscettibile di essere scambiata o ceduta, anche parzialmente, mediante patti o accordi.
 
L’obbligo di sicurezza ex art. 2087 c.c. del datore di lavoro di adottare tutte le misure necessarie per la tutela dell’integrità fisica del lavoratore, rende il datore di lavoro suscettibile di responsabilità risarcitoria nei confronti del lavoratore (nonchè penale). Nel momento in cui il datore di lavoro concedesse al lavoratore una esenzione dall’indossare le scarpe antinfortunistiche, sarebbe allora necessario o implicito una sorta di patto in cui il lavoratore, in cambio dell’esenzione dall’indossare le scarpe, pattuirebbe una rinuncia al richiedere danni al datore di lavoro, non più in grado di adottare tutte le misure di sicurezza richiestigli dalla legge.
 
Questo tipo patto rappresenterebbe un chiaro esempio di«cessione» parziale, a mezzo di patto, del proprio diritto alla salute tutelato dall’art.32 della Costituzione: tale tipo di patto, però, proprio per la«natura indisponibile» del diritto alla salute, non è ammissibile.
 
Tale patto sarebbe, inoltre, per il datore di lavoro privo di ogni valore liberatorio in termini di responsabilità penale, in quanto le norme di prevenzione degli infortuni, tra le quali rientra l’obbligo di calzature antinfortunistiche, appartenendo al diritto pubblico, non possono essere derogate da accordi privati, espliciti o impliciti che siano. Rappresentando, inoltre, l’obbligo di utilizzo di DPI un reato perseguibile d’ufficio e non a querela, ogni patto in materia non cambierebbe in nessun modo sull’iter giudiziario dell’eventuale illecito.
 
Su un piano più pratico, inoltre, ogni eventuale accordo tra datore di lavoro e lavoratore potrebbe costituire agevole possibilità di sistematico aggiramento della legge, in quanto potrebbe consentire al datore di lavoro, sulla base di certificati medici certificanti anche semplici “disagi” ad indossare i DPI, di ottenere dai propri dipendenti documenti utili a non applicare questa ed altre norme antinfortunistiche.
 
Tutto quanto sopra, infine, diventa particolarmente rilevante “… quando si tenga conto dello stato di soggezione del lavoratore dipendente nei confronti del datore di lavoro e del conseguente potere di suggestione di quest’ultimo; e quando si tratti di tutelare diritti per loro natura indisponibili e costituzionalmente garantiti, quali il diritto alla salute” (estratto da Cass. Penale sez. VI, sentenza n. 1473 del 4.2.99).
 
A maggior ragione, ovviamente, per quanto sopra, sarebbero del tutto irrilevanti fogli di liberatoria sottoscritti dal lavoratore (del tipo «… me ne assumo io la responsabilità …»).
 
Come è corretto comportarsi
Riprendendo il già citato art.76 comma 2c (“DPI devono tenere conto delle esigenze ergonomiche o di salute del lavoratore”), di fronte all’esibizione da parte del lavoratore di un certificato medico attestante l’impossibilità di indossare le scarpe antinfortunistiche, al datore di lavoro non rimane altro che:
 
1) Consultare il  medico competente (se nominato) chiedendogli se il problema del lavoratore (problema che dovrebbe comunque rimanere coperto da segreto medico) comporta davvero impossibilità o comunque usura nell’indossare il DPI. Talvolta il problema può essere infatti risolto dal medico o può trattarsi di un problema transitorio. Nel caso la ditta non abbia un medico competente può essere richiesta visita medica ai sensi dell’art.5 dello statuto dei lavoratori.
 
2) Nel caso i motivi medici siano effettivamente fondati la scelta migliore è ricercare una scarpa il più adatta possibile al lavoratore. In genere conviene indirizzare direttamente il lavoratore ad un negozio specializzato in modo che possa scegliere direttamente lui la scarpa antinfortunistica che gli provoca meno disagio. Restano ovviamente fermi i principi di idoneità delle caratteristiche antinfortunistiche della scarpa. In caso fosse addirittura necessario far costruire una scarpa “ad hoc” per il lavoratore, si aprirebbe però il problema della marchiatura CE o comunque della certificazionedi conformità.
 
3) Nel caso non si riesca a trovare una scarpa adatta allo scopo non rimane che valutare il trasferimento del lavoratore ad altro reparto ove non vi sia rischio di schiacciamento e quindi obbligo di scarpe antinfortunistiche. Nel caso tale impossibilità derivi da oggettiva e giustificata motivazione medica si tratta di una vera e propria (sopravvenuta) non inidoneità alla mansione con tutte le conseguenze affrontate dalla Corte di Cassazione con la sentenza a sezioni unite 7755/98.
 
Chi paga il plantare?
Una problematica quasi altrettanto frequente osservabile nelle aziende è rappresentata dal lavoratore che, per potere calzare le scarpe antinfortunistiche, deve indossare plantari per motivi medici personali e per questo richiede che sia il datore di lavoro a pagargli tale presidio medico.
 
In questo caso le fonti giuridiche in questione appaiono sostanzialmente diverse dal caso precedente.
 
Va premesso come la Corte di Cassazione non si sia mai occupata direttamente di questa problematica per cui non sono rintracciabili sentenze in materia ma è comunque ricavabile qualche preziosa indicazione dai principi di giurisprudenza consolidatasi negli anni nel repertorio della giurisprudenza di legittimità.
 
Per analizzare correttamente il problema è necessario partire dall’art.23 della Costituzione che stabilisce come “nessuna prestazione personale o patrimoniale può essere imposta se non in base alla legge”. Questo principio costituzionale sancisce un vero e proprio«principio di riserva di legge»: affinché, cioè, si possa imporre di fare o far pagare qualcosa a qualunque cittadino, e quindi anche al datore di lavoro, è sempre necessaria una esplicita legge in tal senso. Pertanto, affinché possa essere imposto al datore di lavoro di «pagare» il plantare è sempre indispensabile individuare preventivamente una esplicita «copertura legale»; in assenza di questa, non vi è obbligo.
 
Premesso questo, diventa di grandissima importanza la sentenza della Corte di Cassazione civile sezione lavoro n.10339/2000: la fattispecie riguarda il caso di un  facchinoche era stato giudicato inidoneo alle mansioni di operatore unico aeroportuale in quanto idoneo a svolgere solo compiti che non comportassero sforzi fisici eccessivi, e che, per questo, data la impossibilità di espletare il compito principale delle proprie mansioni, era stato licenziato per «giustificato motivo oggettivo». Nel ricorso per Cassazione il lavoratore contestava alla ditta la mancata applicazione dell’art.2087 c.c. a causa del “rifiuto di adottare assetti organizzativi che consentissero l’agevole sostituzione con altri dipendenti nell’espletamento dei compiti più usuranti” e nella mancata adozione di “misure tecniche diverse in relazione al carico dei bagagli e della zavorra, secondo il precetto di cui all’art. 48 D.Lgs. 626/1994″. Il lavoratore, in altre parole, invocava l’art.2087 c.c. e il D.Lgs 626/94 quali fonti giuridiche che, a suo giudizio, avrebbero dovuto obbligare la ditta ad adottare misure organizzative e tecniche per mettere il lavoratore menomato fisicamente comunque nelle condizioni di lavorare in qualche modo.
 
Scomponendo analiticamente su un piano medico-legale la situazione, si può notare come il lavoratore in questione presenti una duplice problematicità:
 
   1. Il lavoratore non è più «idoneo» a sollevare pesi, in quanto la  movimentazione manuale dei carichi potrebbe comportare prevedibili rischi per la sua salute.
   2. L’esigenza di tutelare la salute del lavoratore, vietando l’impiego in mansioni comportanti la movimentazione manuale dei bagagli, determina inevitabilmente una significativa riduzione della performance lavorativa (“capacità”) dell’operatore, tra l’altro, proprio nella componente principale del proprio profilo di appartenenza.
 
Ora non esiste dubbio alcuno come, per quello che riguarda il «pericolo per la salute» del lavoratore rappresentato dalla movimentazione manuale dei carichi dei bagagli, proprio l’art.2087 c.c. e il D.Lgs 81/2008, impongano al datore di lavoro non adibire più il lavoratore a questa mansione.
 
Ma il discorso cambia per quello che riguarda l’invocato obbligo a carico del datore di lavoro di adottare assetti organizzativi e misure tecniche necessarie a fare in modo che un lavoratore così menomato potesse ancora in qualche modo lavorare. La Cassazione, a riguardo, ha modo di affermare un principio di grande importanza: “Se ne deve trarre una prima conclusione: quand’anche il ricorso ai mezzi offerti dalle avanzate tecnologie fosse stato in grado di eliminare gravosi sforzi fisici nell’esecuzione di determinati lavori, non è configurabile un obbligo dell’imprenditore di adottarli per porsi in condizione di cooperare all’accettazione della prestazione lavorativa di soggetti affetti da infermità, che vada oltre il dovere di garantire la sicurezza imposto dalla legge (D.lgs. 626/1994)”.
 
L’indicazione della Corte di Cassazione appare perentoria: D.Lgs 626/94 (oggi D.Lgs 81/2008) e art.2087 c.c. sono leggi che riguardano esclusivamente la sicurezza sul lavoro e da esse è ricavabile, per il datore di lavoro, solo un obbligo di garantire la sicurezza dei lavoratori subordinati; D.Lgs 81/2008 e art.2087 c.c., pertanto, in materia di salute dei lavoratori, riguardano esclusivamente la sfera della « idoneità»e non quella della «capacità» di lavoro.
 
Il datore di lavoro è dunque tenuto, in base a queste due previsioni legislative, ad adottare tutte le misure necessarie a tutelare l’integrità fisica e morale del lavoratore ma non può parimenti essere obbligato in forza a queste stesse fonti legislative ad adottare misure tecnico-organizzative che sopperiscano alla quella quota di «capacità lavorativa» che il lavoratore menomato ha perso; né esistono, d’altronde, per i lavoratori non rientranti nella tutela della legge 68/99 altre fonti giuridiche in tal senso, e necessarie invece ai sensi dell’art.23 della Costituzione.
 
Trasferendo questi principi alla problematica del lavoratore che reclama l’acquisto di un plantare da parte dell’azienda, le conseguenze appaiono ovvie: art.2087 c.c. e D.Lgs 81/2008 possono obbligare il datore di lavoro solo a garantire la sicurezza e quindi a fornire scarpe antinfortunistiche idonee a garantire l’incolumità dei lavoratori. Il plantare, invece, non rappresenta in alcun modo un dispositivo finalizzato a tutelare il lavoratore dai rischi specifici lavorativi, essendo esclusivamente finalizzato a correggere malformazioni del piede proprie del lavoratore: non è quindi desumibile dall’art.2087 c.c. e e dal D.Lgs 81/2008 una idonea fonte legale, necessaria invece ai sensi dell’art.23 della Costituzione, ad obbligare il datore di lavoro ad acquistare un presidio del genere.
 
La conclusione è obbligata: imporre l’acquisto del plantare da parte del datore di lavoro comporterebbe una violazione dell’art.23 della Costituzione e quindi spetta al lavoratore l’acquisto di tale presidio. Non va, però, dimenticato l’art.76 comma 2c che, come visto sopra, afferma come i DPI debbano tenere conto delle esigenze ergonomiche o di salute del lavoratore: da questo precetto normativo è invece desumbile un chiaro obbligo per il datore di lavoro di fornire calzature antinfortunistiche, se necessario, anche individualizzate, che eventualmente tengano conto della necessità del lavoratore di indossare tali plantari.