Quando è obbligatorio indossare le scarpe antinfortunistiche
Per comprendere integralmente gli obblighi del datore di lavoro in materia di dispositivi di protezione individuale (DPI)è necessario partire dal ruolo centrale che la giurisprudenza di legittimità, in modo assolutamente uniforme, affida all’art.2087 c.c..
Con l’osservanza della normativa specifica, però, non si esauriscono gli obblighi di sicurezza del datore di lavoro in quanto, rappresentando l’art.2087 c.c. norma di chiusura del sistema antinfortunistico, il datore di lavoro è tenuto ad adottare anche quelle misure che, pur non previste dalla legge come obbligatorie, dovessero rendersi necessarie in base alla particolarità del tipo di lavoro svolto.
E’ da sottolineare come, nella formulazione scelta dal legislatore dell’art.2087 c.c., le misure necessarie alla tutela dell’integrità fisica del lavoratore debbano essere adottate «in base alla esperienza»: Tale formulazione rimanda logicamente al concetto di «prevedibilità del rischio»: “In materia di eventi colposi per violazione di regole antinfortunistiche, allorchè siano contestate l’imprudenza, la negligenza e l’imperizia, il criterio per l’individuazione della colpa è data dal ricorso al concetto di prevedibilità, ossia il principio che, fuori dell’ipotesi di inosservanza di specifiche prescrizioni normative, possono ascriversi a colpa solo quegli eventi che, in relazione alle particolari circostanze del caso concreto, siano prevedibili dal soggetto al momento della realizzazione della sua condotta. Ne consegue che non può pretendersi l’adozione di accorgimenti per fronteggiare evenienze infortunistiche assolutamente impensabili ed eccezionali in base alla comune esperienza” (Cass. Pen. sez. IV, 8.6.87 n.7130). Nello stesso art.384 del DPR 547/55, del resto, il legislatore optava per una formulazione per così dire «aperta», senza indicare «tutti» i lavori in cui le scarpe antinfortunistiche sono obbligatorie: “Per la protezione dei piedi nelle lavorazioni in cui esistono specifici pericoli di ustioni, di causticazione, di punture o di schiacciamento, i lavoratori devono essere provvisti di calzature resistenti ed adatte alla particolare natura del rischio. Tali calzature devono potersi sfilare rapidamente”.
Dunque, nei casi in cui non esista un obbligo di comportamento imposto tassativamente dalla legge – in quanto già valutato come pericoloso dal legislatore – sarà il datore di lavoro a valutare, sotto propria responsabilità, se tale rischio appaia «prevedibile» o meno: di conseguenza, in caso di infortunio dovuto a mancanza di scarpe antinfortunistiche, il datore di lavoro dovrà cercare di dimostrare al giudice come tale rischio di schiacciamento non fosse ragionevolmente prevedibile.
Per riassumere, l’obbligo di indossare le scarpe antinfortunistiche scatta:
(tale elenco è costituito dal punto 3 dell’allegato VIII del D.Lgs 81/2008)
Comunque, ogni qualvolta risulti «prevedibile» un rischio di lesioni ai piedi: tale prevedibilità dovrà essere valutata dal SPP in sede di valutazione dei rischi.
Il principio di prevedibilità del rischio
Ma allora quando un rischio può essere definito«prevedibile»? In passato la Corte di Cassazione ha mantenuto un atteggiamento estremamente severo in materia di prevedibilità del rischio: ne rappresenta l’archetipo la sentenza Cass. 19.4.90, in cui il datore di lavoro veniva condannato in violazione dell’art.382 del DPR 547/55 nel sinistro occorso ad cantoniere che, sorvegliando e dirigendo il traffico, veniva colpito da sasso mosso da taglia erbe manovrato da un collega a ben 36 metri di distanza.
Nella fattispecie di lesione all’occhio dovuta a chiodo che rimbalzava all’indietro mentre veniva piantato con un martello, la Suprema Corte aveva modo di affermare come “l’art.382 del DPR 547 del 27.4.1955 si riferisce non solo alle lavorazioni in cui tali proiezioni siano abituali, ma anche alle lavorazioni in cui le proiezioni siano eccezionali e contingenti. Trattasi infatti di una norma a carattere generale, non contenente una elencazione tassative di attività per cui è necessaria la misura cautelare e pertanto rientra nella previsione qualsiasi tipo di lavoro, compreso quello edile, anche se il pericolo di proiezione di schegge non sia molto probabile” (Cass. sez. IV pen. 19.10.90 n.13944, Timpano). A queste sono seguite una serie di condanne, sempre per violazione dell’art.382 del DPR 547/55, nel caso di lesioni agli occhi dovute ad chiodo che spezzatosi inchiodando una tavola (Cass.2.5.94, Attili; Cass. 17.12.81), dovute a punta del trapano spezzatasi (Cass. 15.3.1983), a scheggia di malta o metallica pulendo manualmente una carriola (Cass. 30.5.83) o a scheggia di alluminio nel travaso di alluminio fuso (Cass. 10.7.90, Filippini).
Molto interessante risulta l’inclusione (Cass. sez. IV pen., 7.3.1990 n.3255, Talleri) tra in rischi prevedibili che obbligano il datore di lavoro a fornire DPI (giubbotto antiproiettile) il caso di guardia giurata ferita durante una rapinaad una banca.
In Cass. sez. III penale 12.7.1989 n.10166, Machetta veniva esclusa, invece, la responsabilità del datore di lavoro in caso di infortunio al piede ad un lavoratore impegnato nella manipolazione di listelli di legno del peso massimo di 2 Kg e che venivano sollevato da terra al massimo due centimetri.
Una delle sentenze in cui viene più lucidamente ed esplicitamente affrontato il tema della «prevedibilità» del rischio rimane, però, senza dubbio Cass. penale sez. III, 27.08.1997, Colucci: “Presupposto per la sussistenza del reato di cui all’art.382 D.P.R.27 Aprile 1955 n.547 è che il dipendente eserciti un lavoro che lo esponga a rischi di offesa agli occhi, perché solo in tal caso il datore di lavoro lo deve munire di occhiali, visiere o altri appropriati dispositivi di protezione individuale. Rischio equivale a pericolo, cioè a “probabilità” di danno, che è notoriamente nozione diversa dalla mera “possibilità” di danno: per questa ragione è illegittimo argomentare che dal momento che un danno si è verificato nell’esercizio di una determinata mansione, per ciò stesso quella mansione presenta il rischio relativo (cioè la probabilità e non la mera possibilità di danno)”. In questa sentenza la Corte ha pertanto modo di distinguere in modo approfondito tra i concetti di «probabilità» di danno e di semplice«possibilità», riconducendo, pertanto, il concetto di colpa esclusivamente alla«prevedibilità» del rischio: d’altronde, individuando nella «semplice possibilità» la linea di demarcazione penale, si finirebbe, ad esempio anche con il dovere imporre occhiali di protezione anche agli impiegati, dato che seno pur sempre «possibili»incidenti agli occhi con penne o altri oggetti da scrivania; inoltre, una tale interpretazione finirebbe con il valutare la condotta del datore di lavoro «ex post», cioè con il senno del poi, il che non appare giuridicamente corretto. Ovviamente, poi, nella valutazione, va tenuto presente anche la potenziale gravità dell’infortunio per cui la scelta e l’entità delle protezioni deve essere più rigorosa in caso di danni gravi.
Da rimarcare come nel caso in cui il legislatore indichi esplicitamente l’obbligo di un DPI in una certa lavorazione (vedi appunto l’allegato VIII del D.Lgs 81/2008), la mancata fornitura di DPI integri la violazione di una «norma di puro pericolo» già di per sé sanzionabile: il reato, infatti, ” …si realizza con la semplice omissione di tale fornitura al lavoratore dipendente, atteso che la norma incriminatrice non esige anche che ne derivi una situazione di pericolo per l’incolumità”, e cioè anche qualora se non si verifichi nessun infortunio.
Infine, ovviamente, non bisogna mai confondere un DPI con un semplice indumento da lavoro (Cass. Pen., IV, 21 giugno 1993. Baccilieri)
Il principio di sussidiarietà
Di fronte ad un rischio di infortunio o di malattia professionale, sia che questo sia stato indicato tassativamente dal legislatore mediante apposito precetto legislativo, sia che questo emerga dalla particolarità del lavoro mediante la valutazione dei rischi aziendali, sono sempre da privilegiarsi le misure che consentono la “riduzione dei rischi alla fonte” e la “priorità delle misure di protezione collettiva rispetto alle misure di protezione individuale” (art.15 comma 1 e-i D.Lgs 81/2008) secondo il consolidato principio di sussidiarietà. Coerentemente, all’art. 75 comma 1 del D.Lgs 81/2008 si legge come “I DPI devono essere impiegati quando i rischi non possono essere evitati o sufficientemente ridotti da misure tecniche di prevenzione, da mezzi di protezione collettiva, da misure, metodi o procedimenti di riorganizzazione del lavoro”.
In caso di esposizione a rischio di rumore, ad esempio, prima di imporre l’uso di tappi o cuffie, il datore di lavoro dovrà prima assicurarsi di avere fatto tutto quanto tecnicamente fattibile per abbattere il rumore alla sorgente e, solo una volta assolto a tale compito, potrà imporre «sussidiariamente» con intransigenza l’utilizzo di cuffie o tappi.
Nel caso delle scarpe antinfortunistiche, invece, tale problema raramente sussiste, non esistendo, nella stragrande maggioranza delle tipologie di lavoro, misure alla fonte o di tutela collettiva in grado di eliminare il rischio di lesioni ai piedi.
Gli obblighi di sorveglianza del datore di lavoro sull’utilizzo di DPI
I doveri degli imprenditori non si limitano a fornire i DPI, a disporre che questi vengano utilizzati e a fornire alcune informazioni sul corretto utilizzo di questi: l’art.18 comma 1f del D.Lgs 81/2008 infatti, impone all’imprenditore di richiedere l’osservanza da parte dei singoli lavoratori delle norme vigenti, dell’uso dei mezzi di protezione collettivi e dei dispositivi di protezione individuali messi a loro disposizione.
Gli artt.20 comma 1d e 78 comma 2 del D.Lgs 81/2008, che obbligano i lavoratori ad utilizzare in modo appropriato i DPI potrebbero essere utili, al massimo, per individuare una corresponsabilità del lavoratore, ma non esentano in alcun modo il datore di lavoro dai propri obblighi, specie alla luce del principio di equivalenza causale sancito dall’art.41 c.p.
Infatti, “in tema di prevenzione infortuni, il datore di lavoro non solo deve approntare le misure antinfortunistiche, ma ha anche l’obbligo di vigilare, affinché tali misure siano attuate ed i lavoratori si avvalgano dei dispositivi di protezione messi a loro disposizione” (Cass. penale, sez. IV, 22-03-1984 n. 2681, Collodel) dato che “non basta porre a disposizione dei dipendenti i presidi antinfortunistici” in quanto “è necessario pretendere ed imporne l’uso effettivo e vigilare perché ciò avvenga” (Cass. pen.sez.IV 20.1.98 n. 644, Compagno),o ancora “… il controllo che il datore di lavoro deve esercitare sull’operato dei dipendenti perché non si verifichino infortuni sul lavoro, essendo finalizzato a tutela l’integrità psico-fisica del lavoratore, non può risolversi nella messa a disposizione di questi ultimi dei presidi antinfortunistici e nel generico invito a servirsene ma deve costituire una delle particolari attività dell’imprenditore, gravando su questo l’onere di fare cultura sul rispetto delle norme antinfortunistiche, di svolgere continua, assidua azione pedagogica, con il ricorso, se del caso, anche a sanzioni disciplinari nei confronti dei lavoratori che non si adeguino alle citate disposizioni” (Cass. Pen. Sez. IV, 6.10.95 ); è pertanto colpevole il DDL che”… a conoscenza del comportamento più volte tenuto dal lavoratore in violazione della norma antinfortunistica, lo abbia ripetutamente ripreso ed invitato ad attenersi alle disposizioni ma, di fronte all’inottemperanza del predetto, non abbia adottato più decisi provvedimenti idonei ad evitare comunque la violazione delle misure di sicurezza” (Cass. pen. sez. IV, 9.12.96, Capo e altro).
Però, specialmente nelle regioni dove la disoccupazione è a livelli più bassi ed è difficile trovare operai con professionalità specifiche, i datori di lavoro sovente si trovano in grossa difficoltà ad imporre l’uso della sicurezza in generale e in particolar modo dei DPI. E’ del resto noto come gli operai più anziani, più esperti e professionalmente competenti, siano spesso quelli più riluttanti a cambiare abitudini di lavoro e in questi casi il datore di lavoro si trova in imbarazzo ad applicare sanzioni disciplinari a dipendenti che potrebbero per questo dimettersi, lasciando un vuoto di professionalità non colmabile e con conseguente danno grave per l’azienda.
Sul piano giuridico, però, queste difficoltà pratiche nulla cambiano in materia di obblighi penalmente rilevanti per il datore di lavoro: un lavoratore che lavori senza scarpe antinfortunistiche in una mansionea rischio rappresenta una situazione di pericolo permanente e «conoscibile» per il datore di lavoro, pericolo che fa automaticamente sorgere un corrispondente e tassativo obbligo per questi di attivarsi e rimuovere prontamente il rischio»).
Le esenzioni mediche dall’indossare i DPI
Il problema apparentemente si complica, però, quando il lavoratore presenta un certificato del medico curante o di uno specialista in cui viene certificata l’impossibilità ad indossare una scarpa antinfortunistica. In genere la documentazione medica si riferisce a patologie che il sanitario ritiene causate dalla scarpa o comunque a patologie che il continuare ad indossare la scarpa potrebbe aggravare. Le lamentele dei lavoratori in genere riguardano il peso della scarpa, la rigidità della suola e il fatto che il puntale in acciaio, nell’atto di accovacciarsi, preme sui metatarsi. Altre motivazioni classiche sono rappresentate, ad esempio, dall’eccessiva sudorazione che peggiorerebbe preesistenti micosi (piede d’atleta) o da malformazioni del piede incompatibili con la scarpa.
L’art.76 comma 2c del DLgs 81/2008, che afferma come un DPI debba “tenere conto delle esigenze ergonomiche o di salute del lavoratore” e il comma d, che afferma come i DPI debbano “poter essere adattati all’utilizzatore secondo le sue necessità”, potrebbero indurre erroneamente molti a pensare che un certificato medico possa a questo punto costituire valido documento per esentare il lavoratore dall’indossare le scarpe. Non siamo a conoscenza di sentenze della Corte di Cassazione che abbiano affrontato nello specifico casi del genere, ma è abbastanza logico prevedere come anche in questo caso l’obbligo impositivo del datore di lavoro non venga meno in quanto:
L’art.41 della Costituzione garantisce all’imprenditore libertà di impresa a condizione che questa non si svolga contro la utilità e la sicurezza sociale. Allo scopo di bilanciare i diritti tutelati dagli articoli 41 e 32 della Costituzione, il legislatore ha formulato l’art.2087 c.c. che impone al datore di lavoro di adottare tutte le misure che dovessero rendersi necessarie per la tutela dell’ integrità psico-fisica del lavoratore.
La salute, rappresentando uno dei «diritti fondamentali»protetti della Costituzione e rappresentando «interesse della collettività»(art.32 Cost.) , rappresenta tipico esempio di «diritto indisponibile»: come tutti i diritti indisponibili non è pertanto suscettibile di essere scambiata o ceduta, anche parzialmente, mediante patti o accordi.
L’obbligo di sicurezza ex art. 2087 c.c. del datore di lavoro di adottare tutte le misure necessarie per la tutela dell’integrità fisica del lavoratore, rende il datore di lavoro suscettibile di responsabilità risarcitoria nei confronti del lavoratore (nonchè penale). Nel momento in cui il datore di lavoro concedesse al lavoratore una esenzione dall’indossare le scarpe antinfortunistiche, sarebbe allora necessario o implicito una sorta di patto in cui il lavoratore, in cambio dell’esenzione dall’indossare le scarpe, pattuirebbe una rinuncia al richiedere danni al datore di lavoro, non più in grado di adottare tutte le misure di sicurezza richiestigli dalla legge.
Questo tipo patto rappresenterebbe un chiaro esempio di«cessione» parziale, a mezzo di patto, del proprio diritto alla salute tutelato dall’art.32 della Costituzione: tale tipo di patto, però, proprio per la«natura indisponibile» del diritto alla salute, non è ammissibile.
Tale patto sarebbe, inoltre, per il datore di lavoro privo di ogni valore liberatorio in termini di responsabilità penale, in quanto le norme di prevenzione degli infortuni, tra le quali rientra l’obbligo di calzature antinfortunistiche, appartenendo al diritto pubblico, non possono essere derogate da accordi privati, espliciti o impliciti che siano. Rappresentando, inoltre, l’obbligo di utilizzo di DPI un reato perseguibile d’ufficio e non a querela, ogni patto in materia non cambierebbe in nessun modo sull’iter giudiziario dell’eventuale illecito.
Su un piano più pratico, inoltre, ogni eventuale accordo tra datore di lavoro e lavoratore potrebbe costituire agevole possibilità di sistematico aggiramento della legge, in quanto potrebbe consentire al datore di lavoro, sulla base di certificati medici certificanti anche semplici “disagi” ad indossare i DPI, di ottenere dai propri dipendenti documenti utili a non applicare questa ed altre norme antinfortunistiche.
Tutto quanto sopra, infine, diventa particolarmente rilevante “… quando si tenga conto dello stato di soggezione del lavoratore dipendente nei confronti del datore di lavoro e del conseguente potere di suggestione di quest’ultimo; e quando si tratti di tutelare diritti per loro natura indisponibili e costituzionalmente garantiti, quali il diritto alla salute” (estratto da Cass. Penale sez. VI, sentenza n. 1473 del 4.2.99).
A maggior ragione, ovviamente, per quanto sopra, sarebbero del tutto irrilevanti fogli di liberatoria sottoscritti dal lavoratore (del tipo «… me ne assumo io la responsabilità …»).
Come è corretto comportarsi
Riprendendo il già citato art.76 comma 2c (“DPI devono tenere conto delle esigenze ergonomiche o di salute del lavoratore”), di fronte all’esibizione da parte del lavoratore di un certificato medico attestante l’impossibilità di indossare le scarpe antinfortunistiche, al datore di lavoro non rimane altro che:
1) Consultare il medico competente (se nominato) chiedendogli se il problema del lavoratore (problema che dovrebbe comunque rimanere coperto da segreto medico) comporta davvero impossibilità o comunque usura nell’indossare il DPI. Talvolta il problema può essere infatti risolto dal medico o può trattarsi di un problema transitorio. Nel caso la ditta non abbia un medico competente può essere richiesta visita medica ai sensi dell’art.5 dello statuto dei lavoratori.
2) Nel caso i motivi medici siano effettivamente fondati la scelta migliore è ricercare una scarpa il più adatta possibile al lavoratore. In genere conviene indirizzare direttamente il lavoratore ad un negozio specializzato in modo che possa scegliere direttamente lui la scarpa antinfortunistica che gli provoca meno disagio. Restano ovviamente fermi i principi di idoneità delle caratteristiche antinfortunistiche della scarpa. In caso fosse addirittura necessario far costruire una scarpa “ad hoc” per il lavoratore, si aprirebbe però il problema della marchiatura CE o comunque della certificazionedi conformità.
3) Nel caso non si riesca a trovare una scarpa adatta allo scopo non rimane che valutare il trasferimento del lavoratore ad altro reparto ove non vi sia rischio di schiacciamento e quindi obbligo di scarpe antinfortunistiche. Nel caso tale impossibilità derivi da oggettiva e giustificata motivazione medica si tratta di una vera e propria (sopravvenuta) non inidoneità alla mansione con tutte le conseguenze affrontate dalla Corte di Cassazione con la sentenza a sezioni unite 7755/98.
Chi paga il plantare?
Una problematica quasi altrettanto frequente osservabile nelle aziende è rappresentata dal lavoratore che, per potere calzare le scarpe antinfortunistiche, deve indossare plantari per motivi medici personali e per questo richiede che sia il datore di lavoro a pagargli tale presidio medico.
In questo caso le fonti giuridiche in questione appaiono sostanzialmente diverse dal caso precedente.
Va premesso come la Corte di Cassazione non si sia mai occupata direttamente di questa problematica per cui non sono rintracciabili sentenze in materia ma è comunque ricavabile qualche preziosa indicazione dai principi di giurisprudenza consolidatasi negli anni nel repertorio della giurisprudenza di legittimità.
Per analizzare correttamente il problema è necessario partire dall’art.23 della Costituzione che stabilisce come “nessuna prestazione personale o patrimoniale può essere imposta se non in base alla legge”. Questo principio costituzionale sancisce un vero e proprio«principio di riserva di legge»: affinché, cioè, si possa imporre di fare o far pagare qualcosa a qualunque cittadino, e quindi anche al datore di lavoro, è sempre necessaria una esplicita legge in tal senso. Pertanto, affinché possa essere imposto al datore di lavoro di «pagare» il plantare è sempre indispensabile individuare preventivamente una esplicita «copertura legale»; in assenza di questa, non vi è obbligo.
Premesso questo, diventa di grandissima importanza la sentenza della Corte di Cassazione civile sezione lavoro n.10339/2000: la fattispecie riguarda il caso di un facchinoche era stato giudicato inidoneo alle mansioni di operatore unico aeroportuale in quanto idoneo a svolgere solo compiti che non comportassero sforzi fisici eccessivi, e che, per questo, data la impossibilità di espletare il compito principale delle proprie mansioni, era stato licenziato per «giustificato motivo oggettivo». Nel ricorso per Cassazione il lavoratore contestava alla ditta la mancata applicazione dell’art.2087 c.c. a causa del “rifiuto di adottare assetti organizzativi che consentissero l’agevole sostituzione con altri dipendenti nell’espletamento dei compiti più usuranti” e nella mancata adozione di “misure tecniche diverse in relazione al carico dei bagagli e della zavorra, secondo il precetto di cui all’art. 48 D.Lgs. 626/1994″. Il lavoratore, in altre parole, invocava l’art.2087 c.c. e il D.Lgs 626/94 quali fonti giuridiche che, a suo giudizio, avrebbero dovuto obbligare la ditta ad adottare misure organizzative e tecniche per mettere il lavoratore menomato fisicamente comunque nelle condizioni di lavorare in qualche modo.
Scomponendo analiticamente su un piano medico-legale la situazione, si può notare come il lavoratore in questione presenti una duplice problematicità:
1. Il lavoratore non è più «idoneo» a sollevare pesi, in quanto la movimentazione manuale dei carichi potrebbe comportare prevedibili rischi per la sua salute.
2. L’esigenza di tutelare la salute del lavoratore, vietando l’impiego in mansioni comportanti la movimentazione manuale dei bagagli, determina inevitabilmente una significativa riduzione della performance lavorativa (“capacità”) dell’operatore, tra l’altro, proprio nella componente principale del proprio profilo di appartenenza.
Ora non esiste dubbio alcuno come, per quello che riguarda il «pericolo per la salute» del lavoratore rappresentato dalla movimentazione manuale dei carichi dei bagagli, proprio l’art.2087 c.c. e il D.Lgs 81/2008, impongano al datore di lavoro non adibire più il lavoratore a questa mansione.
Ma il discorso cambia per quello che riguarda l’invocato obbligo a carico del datore di lavoro di adottare assetti organizzativi e misure tecniche necessarie a fare in modo che un lavoratore così menomato potesse ancora in qualche modo lavorare. La Cassazione, a riguardo, ha modo di affermare un principio di grande importanza: “Se ne deve trarre una prima conclusione: quand’anche il ricorso ai mezzi offerti dalle avanzate tecnologie fosse stato in grado di eliminare gravosi sforzi fisici nell’esecuzione di determinati lavori, non è configurabile un obbligo dell’imprenditore di adottarli per porsi in condizione di cooperare all’accettazione della prestazione lavorativa di soggetti affetti da infermità, che vada oltre il dovere di garantire la sicurezza imposto dalla legge (D.lgs. 626/1994)”.
L’indicazione della Corte di Cassazione appare perentoria: D.Lgs 626/94 (oggi D.Lgs 81/2008) e art.2087 c.c. sono leggi che riguardano esclusivamente la sicurezza sul lavoro e da esse è ricavabile, per il datore di lavoro, solo un obbligo di garantire la sicurezza dei lavoratori subordinati; D.Lgs 81/2008 e art.2087 c.c., pertanto, in materia di salute dei lavoratori, riguardano esclusivamente la sfera della « idoneità»e non quella della «capacità» di lavoro.
Il datore di lavoro è dunque tenuto, in base a queste due previsioni legislative, ad adottare tutte le misure necessarie a tutelare l’integrità fisica e morale del lavoratore ma non può parimenti essere obbligato in forza a queste stesse fonti legislative ad adottare misure tecnico-organizzative che sopperiscano alla quella quota di «capacità lavorativa» che il lavoratore menomato ha perso; né esistono, d’altronde, per i lavoratori non rientranti nella tutela della legge 68/99 altre fonti giuridiche in tal senso, e necessarie invece ai sensi dell’art.23 della Costituzione.
Trasferendo questi principi alla problematica del lavoratore che reclama l’acquisto di un plantare da parte dell’azienda, le conseguenze appaiono ovvie: art.2087 c.c. e D.Lgs 81/2008 possono obbligare il datore di lavoro solo a garantire la sicurezza e quindi a fornire scarpe antinfortunistiche idonee a garantire l’incolumità dei lavoratori. Il plantare, invece, non rappresenta in alcun modo un dispositivo finalizzato a tutelare il lavoratore dai rischi specifici lavorativi, essendo esclusivamente finalizzato a correggere malformazioni del piede proprie del lavoratore: non è quindi desumibile dall’art.2087 c.c. e e dal D.Lgs 81/2008 una idonea fonte legale, necessaria invece ai sensi dell’art.23 della Costituzione, ad obbligare il datore di lavoro ad acquistare un presidio del genere.
La conclusione è obbligata: imporre l’acquisto del plantare da parte del datore di lavoro comporterebbe una violazione dell’art.23 della Costituzione e quindi spetta al lavoratore l’acquisto di tale presidio. Non va, però, dimenticato l’art.76 comma 2c che, come visto sopra, afferma come i DPI debbano tenere conto delle esigenze ergonomiche o di salute del lavoratore: da questo precetto normativo è invece desumbile un chiaro obbligo per il datore di lavoro di fornire calzature antinfortunistiche, se necessario, anche individualizzate, che eventualmente tengano conto della necessità del lavoratore di indossare tali plantari.