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Atti di bullismo e stress

Giugno 14, 2016 By: PolissFormazione Category: Senza categoria

Continuando nell’analisi valutativa, dei diversi fattori sociali e personali che incidono sul diffondersi del bullismo, in quest’articolo, ci si è prefissato l’intento di analizzare e approfondire quegli aspetti che maggiormente portano la vittima a non reagire e a lasciar perpetrare l’abuso. Un abuso che, provocando l’innalzamento dei livelli di stress, impedisce ad alcuni, di reagire affrontando e superando l’accaduto. Non a caso, infatti, il bullo sceglie determinati soggetti piuttosto che altri.

Lo stress è un fenomeno complesso, ed è da considerarsi come una situazione particolare, nella quale i quotidiani avvenimenti vissuti, subiscono delle repentine alterazioni. Alterazioni che, a qualsiasi livello, necessitano, per essere fronteggiate adeguatamente, di un nuovo adattamento ed equilibrio da parte del soggetto stesso. Le alterazioni, i cambiamenti, sono passaggi obbligatori del nostro vissuto, e lo stress che li introduce nel nostro quotidiano è diciamo fisiologico. Se ci pensiamo, ogni giorno, tutti noi siamo sottoposti a stress di vario genere. Uno stress però di tipo positivo, che ci aiuta a migliorare la nostra esistenza e la nostra condizione sia fisica che mentale. Quando però, la fase di alterazione e cambiamento perdura per periodi troppo lunghi e raggiunge livelli troppo alti di stress, la situazione non è più da considerarsi positiva e fisiologica, e si può facilmente incorrere in diverse problematiche. Ed è questo il vicolo cieco in cui si trovano spesso le vittime del bullismo.

Nel corso degli anni, molti sono stati gli studiosi che nei loro diversi ambiti hanno dato un rilevante contributo all’analisi e alla spiegazione delle cause del problema. Il primo fra tutti fu il medico austriaco Selye. Egli già nel 1936 riconobbe lo stress come una condizione non necessariamente patologica, o comunque non negativa, ma piuttosto uno stato di passaggio provvisorio atto a ristabilire un equilibrio, che potrebbe essere anche diverso da quello iniziale. Sempre per Selye, un soggetto, di fronte a una situazione stressante, attua una serie di reazioni difensive di natura fisiologica e psicologica, che implicano sia la possibilità di modificare l’ambiente in funzione delle necessità del soggetto, sia l’eventualità di intraprendere un cambiamento delle caratteristiche soggettive per meglio adattarsi all’ambiente circostante. Da un punto di vista puramente biologico, ogni persona davanti ad uno stressor (stimolo esterno), reagisce e cerca fisicamente e cognitivamente di superare la situazione che devia dalla prevedibile sequenzialità quotidiana. Selye la definisce fase choc. Ed è la fase in cui il corpo si prepara istintivamente a combattere o a fuggire. La situazione però diviene problematica nel momento in cui, come sostennero nel 1984 Lazarus e Folkman, il soggetto si dimostra non in grado di sopportare e superare questo stato alterato a causa di fattori personali di vario tipo. Per questi due studiosi, gli eventi sono da considerarsi stressanti, nella misura in cui sono percepiti come tali dal soggetto stesso, che diviene parametro delle diverse possibili reazioni. Non esiste quindi in assoluto una situazione che si possa definire stressante. Ma, piuttosto, un soggetto più o meno capace di farvi fronte. E l’insieme degli sforzi comportamentali e cognitivi, per fronteggiare una situazione che causa stress, venne da loro definita: Coping. Ovviamente queste strategie, nel loro manifestarsi, vanno a combinarsi e a svilupparsi con il proprio concetto di SE’, che insieme alle variabili età, sesso e cultura ci consentono meglio di capire il potenziale reattivo del soggetto. Non a caso chi possiede un buon concetto di sé, supportato da autostima e fiducia nelle proprie capacità, sarà sicuramente in grado di applicare buoni coping. E le abilità di coping evolvono lungo tutto l’arco della vita.

Di fronte ad un problema, Lazarus e Folkman teorizzarono, dopo diversi esperimenti di gruppo, due tipologie di coping: uno attivo che tende a modificare l’ambiente esterno stressante, risolvendo il problema; uno passivo che incapace di fronteggiare la situazione, ripiega su se stesso cercando di modificare il proprio atteggiamento nei confronti dello stressor. Ovviamente questa seconda tipologia passiva di risoluzione del problema è quella tipica adottata dalle vittime. Vittime che da sole sanno di non poter essere in grado di reagire. Che prendono tempo, sperando che il loro sopportare porti da solo dei miglioramenti. Ma troppo spesso, anche il tempo diventa loro nemico, e la situazione, inizialmente solo stressante, diventa malessere. E il malessere non può essere represso a lungo. Alla fine prende lui stesso il sopravvento facendoci o esplodere o implodere. E in entrambi i casi, le conseguenze sono poco prevedibili, e troppo spesso devastanti.

Dott.ssa Tania Nardi

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