I social network e l’attività cerebrale.
Nei due articoli precedenti si è cercato di analizzare su larga scala quanto, l’imponente diffusione delle nuove tecnologie, abbia modificato il comune vivere quotidiano, generando quello che ormai è per tutti, un mutamento di proporzioni planetarie. Qui di seguito, si cercherà invece, di restringere il campo analitico, avanzando una tesi più specifica del problema, che interesserà il solo aspetto cognitivo recettivo. Sì, perché in questa tumultuosa rivoluzione tecnologica a essere in primo luogo interessato, e ampiamente sollecitato, è il nostro cervello, quotidianamente e costantemente sottoposto a un flusso ininterrotto di dati. Messaggi, foto, informazioni, tutti imput che senza alcun filtro, dall’esterno ci arrivano diretti al nostro cervello, che come una black-box, incamera e ci restituisce, senza farci comprendere cosa però all’interno sia realmente accaduto. Domande quindi su come Internet ci stia modificando, sono oggettivamente giuste: ci migliora o ci peggiora?. Ci aiuta e supporta nella vita quotidiana, o ci rende succubi?. Interrogativi questi che, sin dai primissimi istanti, hanno generato allarmismi di vario tipo, dai quali però studi e analisi di settore, hanno ben presto preso le distanze, per valutare il fenomeno in modo molto più adeguato. Molti sono stati gli studiosi che, al riguardo, hanno apportato un ventaglio d’innumerevoli analisi. Analisi che, nel mondo scientifico e non, hanno generato due nette e distinte correnti di pensiero: chi esalta lo sviluppo e la diffusione di Internet, e chi li ritiene la causa principale di molte problematiche. Al primo gruppo appartiene lo scrittore e studioso statunitense Nicholas Carr, il quale si pone una semplice domanda: “What the Internet doing your brains?”. Quali modifiche, quali migliorie o danni, causa sul cervello l’utilizzo di Internet?. Una domanda basilare, ma di sicuro quanto mai efficace per intraprendere un’analisi che ha come obiettivo finale, quello di studiare come il nostro modo di pensare, elaborare e rispondere sia stato modificato dall’impiego delle nuove tecnologie nella vita quotidiana.
Carr parte dall’asserzione Neuroscientifica di Plasticità Cerebrale, nella quale si sostiene che sia una potenzialità del cervello variare le sue caratteristiche in funzioni di stimoli esterni. Infatti, è stato dimostrato che, il cervello di un’analfabeta è strutturalmente diverso da quello degli alfabetizzati. Ed è proprio su questo postulato che Carr teorizza una sua ipotesi: “ Se il saper leggere e scrivere, può modificare le nostre potenzialità cerebrali, si suppone che anche l’utilizzo di supporti tecnologici, possano modificare alcuni aspetti ”. Il punto focale ora è quello di stabilire quali possano essere stati nel corso degli anni queste modifiche che, a parere del nostro studioso, non sono positive. Carr, infatti, sostiene che mentre il processo che porta all’alfabetizzazione è un processo costruttivo, lento e continuo, i sistemi digitali ci forniscono solo un linguaggio già impostato e prefigurato che noi dobbiamo solo utilizzare senza conoscerne le strutture e le regole sottostanti. Ogni giorno siamo bersagliati da una valanga d’informazioni tecnologiche, sulle quali non abbiamo né tempo di soffermarci, né di rifletterci, facendo cadere ai minimi livelli le capacità di concentrazione. Quest’ultima molto diffusa tra le nuove generazioni che, però, conquistano il primato di Multitasking: attività che ci permette di oltrepassare la monodimensionalità (Herbert Marcus “L’uomo a una dimensione”) e di aprirsi alla multiprocessualità. Con la velocità di un click, sembra che si possa conquistare una libertà, tale da essere ovunque ed evitare la dittatura in se stessi (Michele Nigro). La nostra attenzione salta costantemente, da un’informazione all’altra, da un’attività all’altra, non lasciando al cervello tempi di riposo per codificare elaborare e apprendere. Sta quindi radicalmente cambiando proprio il modo di memorizzare, che non richiede più di registrare, annotare o imparare, perché in nostro aiuto arrivano sistemi operativi come Google che, in real time, ci fanno in ogni luogo e in ogni momento recuperare l’informazione. Questi supporti sono stati definiti come protesi della memoria collettiva.
Più moderata è invece l’opinione del professor Paolo Ferri (docente di Teoria e tecniche dei nuovi media) che, non sentenziando se quello che sta accadendo sia un bene o un male, parla di come i supporti tecnologici, impiegati nei settori dell’apprendimento, stiano aprendo nuove frontiere conoscitive. Da studi effettuati nel campo della Neurofisiologia e delle Neuroscienze, si è scoperto che l’attività cerebrale è stata profondamente modificata dall’utilizzo dei sistemi digitali. Un bambino che legge sul computer, attiverà aree neurali del tutto diverse da chi legge sulla carta o da chi gioca con i videogiochi. Al riguardo è stata realizzata un’analisi su di un campione di giovani che utilizzano social-networks, sui quali sono stati rilevati aumenti della materia grigia e bianca, nel momento in cui sono stati sottoposti a test diagnostici come la Pet (tomografia ed emissione di positroni) e la RNM (risonanza magnetica nucleare). Una scoperta questa che con indubbia certezza ci assicura quanto il nostro cervello si stia modificando, ma non in quale direzione. Attraverso l’interazione con l’ambiente esterno le connessioni sinaptiche, stimolate in un certo modo, iniziano a modificarsi. Quelle usate di rado s’indeboliscono fino a scomparire, mentre quelle utili si rafforzano. E questo processo è attivo per tutto l’arco della nostra vita (Fisher 2007). Migliorie, quindi, scientificamente comprovate, che sempre più ci portano a parlare di una nuova diffusa tipologia d’intelligenza: l’Intelligenza Digitale. Un’intelligenza puramente pratico-reattiva, non teorica analitica, che sempre più, ci rende utilizzatori, ma non conoscitori dei sistemi operativi.
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Dott.ssa Tania Nardi